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Bellissima Italia, ispirazione d’arte per il mondo: il Getty Center di Los Angeles
12 Set

Bellissima Italia, ispirazione d’arte per il mondo: il Getty Center di Los Angeles

Los Angeles: non solo Hollywood, non solo Mulholland Drive, Venice Beach o la Walk of Fame: noi siamo andati oltreoceano e oltre per visitare un museo che non solo è uno dei più importanti al mondo, ma soprattutto spicca per l’onore reso all’arte italiana: il Getty Center di Los Angeles. Inaugurato nel 1997, il Getty Center è una sorta di moderna acropoli composta da 11 edifici circondati da meravigliosi spazi verdi.
Il suo creatore, l’architetto Richard Meier, parla del Center come dell’idea romantica di ricreare delle città italiane sulla collina; inoltre per l’articolazione degli edifici si rifà ad antiche ville romane come la Villa Adriana di Tivoli.
Ma è soprattutto tra le opere esposte che la nostra arte viene grandemente celebrata al Getty. Oltre all’arte antica esposta nella Villa, la permanente del Center espone opere di grandissimo pregio dal medioevo al diciannovesimo secolo.
Come dice Timothy Potts, direttore del Getty Museum, il nostro paese rappresenta un tesoro sorprendentemente rigoglioso di meraviglie sceniche, tra opere d’arte, edifici storici e panorami emozionanti. E l’attenzione riposta dal Getty Museum nei confronti dell’Italia dell’arte è testimoniata anche dalla presenza di Davide Gasparotto, dal 2015 Senior Curator dei dipinti del museo.

Gli uomini e la natura in movimento, verso le idee
28 Giu

Gli uomini e la natura in movimento, verso le idee

L'Idea: un concetto fondamentale per il pensiero umano, di qualsiasi forma. Dall'artigiano all'ingegnere, dal cuoco al calciatore, ognuno basa sull'Idea la propria attività. La capacità di formulare idee è la caratteristica fondamentale dell'essere intelligente, e se negli animali l'ideazione è funzionale e mai astratta, oltre che rara, nell'essere umano assume un'altra forma e si rende capace di andare oltre.

Oltre ciò che è mondano, addirittura "oltre il cielo" nella visione platonica, in cui era - appunto - l'Iperuranio la sede delle idee.

È intorno al concetto di Idea che si svolge la collettiva "Natura Plastica", visitabile dal 28 giugno al 24 luglio presso Blindarte in Via Palermo a Milano.
"Natura Plastica", ovvero natura in movimento - o anche natura manipolata: dall'uomo, si intende. Che per farlo attinge all'Iperuranio, a idee che già esistono, e le rende visibili; d'altronde l'etimo stesso di "idea"/ἰδέα, dal tema di ἰδεῖν, significa appunto "vedere". E l'Artista è colui che più ancora di artigiani, ingegneri, cuochi o calciatori pone l'idea completamente astratta al centro della propria azione, per renderla reale e manifesta come propria Visione.

L'esposizione si riferisce, nello specifico, al pensiero seicentesco neoplatonico: il curatore Memmo Grilli ha posto la propria attenzione in particolare alle teorie di Ralph Cudworth, che pur rimanendo legate a una spiritualità dogmatica (Cudworth era pastore di una piccola parrocchia) lascia intravedere spiragli di libertà e autodeterminazione; per i tempi e i contesti, cosa non da poco, tanto è vero che avrà una forte influenza non solo sul concetto di idea o di libertà, ma anche su quello di natura - che si fa "essere vivente non consapevole" - e di conseguenza su tutto il pensiero europeo.
E questo pensiero, traslato in contesto artistico, è al centro della mostra, dove saranno presenti opere create in epoche del tutto differenti, ma coese nel rappresentare questi temi. Sono presenti, tra le altre, opere di Micco Spadaro, Raffaele Belliazzi, Giuseppe Casciaro, Joseph Beuys, Davide Cantoni, Man Ray, Anselm Kiefer, Matteo Procaccioli, Enrico Baj, Massimo Bartolini, Emilio Cavallini, Christo, Jeff Koons, Mimmo Rotella, Mario Schifano, Andy Warhol e Francesca Woodman.

@ilGiornaleOff

Giovanna Fra. L’universo pittorico abbraccia la musica
05 Giu

Giovanna Fra. L’universo pittorico abbraccia la musica

Alla 57ma Biennale di Venezia quest’anno, al padiglione della Repubblica di San Marino, c’è  Giovanna Fra, artista pavese di formazione milanese, invitata dal curatore Vincenzo Sanfo a dialogare con un gruppo di artisti cinesi sulla pittura a inchiostro, le sue origini e i suoi sviluppi.
Si tratta di una delle varie manifestazioni in cui Fra è coinvolta in questi stessi giorni; eventi che vanno dalla collaborazione con Giovanni Allevi – l’artista è fortemente legata all’interazione tra musica e arte – che avverrà nella prima metà di luglio, a LODOLAFRA, una “doppia personale” in collaborazione con l’icona moderna dell’arte Pop italiana Marco Lodola.
Abbiamo incontrato Giovanna per rivolgerle alcune domande in merito a questi appuntamenti, al rapporto tra l’arte e la musica, e alla sua opera.

Volevo innanzitutto parlare di LODOLAFRA. I vostri linguaggi sono senz’altro diversi, ma trovano un potente punto di incontro in quelli che sono probabilmente i minimi comun denominatori delle arti visive, ovvero la luce innanzitutto, ma anche il colore e se non i materiali, quanto meno la matericità. Quali ritieni possano essere i punti in comune tra le vostre visioni?
La nostra visione dell’arte è decisamente all’opposto, a partire proprio dall’uso di materiali completamente differenti; l’unione, come dici, sta proprio nel colore e nella forza del colore stesso. Nei lavori fatti assieme, io intervengo coi miei gesti pittorici sul plexiglass: i gesti vengono quindi quasi contenuti, diventano quasi un’astrazione all’interno di qualcosa di figurato che sono le immagini ritagliate in plexiglass di Marco, soprattutto le sue riconoscibilissime ballerine su cui ci siamo particolarmenteimage (7) concentrati, anche se poi sicuramente questo nostro incontro si evolverà. Quindi direi che da visioni del tutto differenti ci cerchiamo e ci troviamo tramite il colore e la matericità del gesto pittorico che gioca all’interno della figura ritagliata.

Tra l’altro anche Lodola, come te, è molto legato al dialogo con il mondo musicale…
Anche in quello l’approccio e la modalità è comunque differente, perchè le sue sono vere e proprie collaborazioni  con artisti di grande livello dei contesti del rock o del pop italiano. La mia visione è invece sempre stata evocata dal gesto a livello più che altro poetico e legata alla classicità della musica. Per cui anche da questo punto di vista il nostro incontro stride e nello stesso tempo si strizza l’occhio. Per me è davvero molto esaltante incontrarmi con un artista come lui che si è sempre confrontato con grandi nomi, è un passaggio importante.

 

Ma anche tu fin dall’inizio ti sei confrontata con grandi nomi. Il rapporto tra la tua arte e la musica è sempre stato molto importante, a partire dalla tesi di Laurea dedicata a John Cage.
ll tutto parte dagli studi d’arte che ho intrapreso a Brera: mi sono diplomata in storia della musica, oltre che in pittura, e ho fatto una tesi con un musicologo che mi ha aiutata a tradurre il mio segno pittorico astratto in suono. In musica il suono non sempre è armonico: può anche farsi disarmonia, essere astratto o grintoso e non sempre piacevole. E improvvisato, come nella musica jazz. Il mio modo di dipingere è sempre stato accostato alla musica jazz per via del mio costante ricorso alla improvvisazione e alla casualità. di una casualità però data da un animo che si riproduce nel fare pittura, nel fare arte. Non so se sono riuscita a spiegarmi perchè è molto difficile raccontare la propria poetica.

Pensando a Cage, leggevo della collaborazione con Jasper Johns a certe coreografie di Cunningham: il coreografo nell’occasione sembrava sostenere – e Cage con lui – che la reale interazione tra arte e musica è totalmente affidata ai sensi del pubblico, e che di fatto esse sono piuttosto slegate tra loro. Qual è il tuo punto di vista?
È esattamente così: la fusione avviene a livello sensoriale. Il segno stesso, peraltro, è come una successione di note musicale slegate l’una dall’altra. E, restando nell’ambito strettamente musicale, Cage diceva addirittura che il rumore che c’è attorno ad una composizione di note musicali diventa anch’esso parte dell’opera. Tanto è vero che lui inserisce nel suo pianoforte degli attrezzi da lavoro proprio per creare rumore e disarmonia nel suo modo di suonare lo strumento, e fa anche interagire il pubblico mentre lui si esibisce sul palcoscenico. Anche questo è molto jazz come atteggiamento, addirittura va oltre il jazz. Cage è geniale. È un atteggiamento dove in arte rientra tutto, non solo il bello estetico e l’armonia delle cose, ma anche il disturbo, rumore, la sgradevolezza. Quindi l’arte non rappresenta solo ciò che è bello, ma deve rappresentare un po’ tutto. Un concetto che arriva dall’Oriente, dove tra l’altro gli orientali 1 (12)considerano nella loro musica non l’armonia continua ma il singolo suono, la nota musicale staccata l’una dall’altra; di conseguenza, per loro le pause sono molto importanti, nella musica come anche nell’arte. E le pause per me rappresentano la parte bianca del dipinto, la parte della tela dove io non pongo il mio tratto, dove l’occhio può respirare e saltare dinamicamente su un altro colore, su un’altra macchia o su un altro segno. Le pause che diventano parte dell’opera.

La multimedialità delle tue ipergrafie è ricerca di sinestesia?
Certo, contaminazione dei sensi, ma anche immagine della pittura stessa. Attraverso la fotografia, che ingrandisce particolari di alcuni miei dipinti o comunque dettagli su cui indago, attraverso quell’immagine che è una macro ingigantita, io creo già delle basi su cui lavorare successivamente e pittoricamente. Quindi è un dialogo tra la fotografia – ovvero il mezzo tecnologico – e la pittura, ma allo stesso tempo è un’indagine un po’ concettuale sulla pittura stessa: un particolare di un quadro più grande e figurativo, preso nella sua piccola porzione, è un quadro astratto, un piccolo quadro astratto. Ecco perciò che nell’astrazione c’è il figurativo e nel figurativo c’è l’astrazione. Questo mio approccio deriva senza dubbio anche dal mondo del restauro: prima di dedicarmi alla sola pittura sono stata per 25 anni restauratrice di tele e affreschi, e questo tipo di indagine sulla materia e sul particolare deriva sicuramente anche da quei miei studi e da quel mestiere.

Il 10 luglio a Pistoia le tue videoproiezioni accompagneranno i concerti di Giovanni Allevi. Puoi raccontarci qualcosa di più?
Si tratterà sempre delle mie ipergrafie che anziché essere su tela, fissate a una parete, verranno tradotte sulle facciate di un importante palazzo di Pistoia e proiettate durante il concerto. La cosa meravigliosa è che il mio lavoro, che ha a che fare con le note musicali e con la musicalità del colore, del segno e della pittura, accompagnerà le note musicali del grande Giovanni Allevi. Questa cosa mi entusiasma davvero. C’è già stata una scelta delle immagini delle mie opere che il tecnico dell’immagine e del suono Claudio Cantoni trasformerà nella proiezione che, in modo lento e progressivo, accompagnerà Allevi. Onestamente non vedo l’ora di vederne la realizzazione dal vivo.

Qual è la differenza di approccio tra la contaminazione dell’arte con la musica colta – che forse può apparire più naturale – e quella con la musica popolare, seppur d’autore?
Non vedo molta differenza; forse sta solo nel fatto che con la musica colta è in un certo senso “ammessa” una sperimentazione meno limitata, dove l’artista può lanciarsi ad indagare mondi nuovi. Lo dico pensando in particolare proprio a John Cage. Nella musica pop l’approccio è più immediato, comunicativo, giovane e fresco se vogliamo. Come può essere l’approccio che ha Marco con gli artisti con cui si confronta, che fanno pop e che sono anch’essi, comunque, grandi musicisti.

Se dovessi pensare a un musicista con cui vorresti confrontarti?
Purtroppo non c’è più ed è David Bowie, quindi non potrò mai più farlo. Però posso dire che abbiamo fatto una collettiva, tempo fa, in cui ogni artista ha lavorato sull’immagine del Duca Bianco: abbiamo esposto sia in luoghi pubblici che privati e di fatto la mostra è tuttora in corso e prossimamente potremo rivederla a Sanremo, all’interno del teatro Ariston.

Mi racconti della tua partecipazione alla Biennale?
Sono stata invitata ad esporre nel padiglione della Repubblica di SAN Marino e a confrontarmi con artisti cinesi: proprio perché il mio segno richiama la cultura orientale mi hanno messo in dialogo con questi artisti, che a loro volta si confrontano invece con la pittura occidentale. Un dialogo molto forte e molto bello, un’interazione di volontà vicendevole di scoprirsi e scoprire le diversità delle due culture. Inoltre il loro essere figurativo è sempre molto lieve, leggero e ben si armonizza con il tipo di pittura che faccio io.

Nel tuo lavoro qual’è stata la cosa che maggiormente ti ha ispirata?
Come accennavo prima, sicuramente il mio lavoro di restauro, questo continuo contatto con la materia, con la pittura; Il cercare di capire, di penetrare un quadro proprio perché lo devi restaurare in profondità e quindi devi capirne ogni cosa, indagarne la materia. Il rapporto con le opere da restaurare – quindi di epoche più remote – mi ha inoltre sempre portata a evocarle pittoricamente, anche con l’uso di colori che se vogliamo richiamano il passato, ma che si fanno contemporanei. Il mio lavoro prende molto da ciò che già è stato.

Divo Nerone. Il musical più infuocato della storia
09 Giu

Divo Nerone. Il musical più infuocato della storia

Non esiste probabilmente alcun personaggio storico – con l’eccezione di Hitler – che abbia goduto di peggiore pubblicità di Nerone. Incendiario, pazzo, addirittura Anticristo secondo alcuni autori cristiani, la figura del “cesare maledetto” è stata considerata totalmente negativa per duemila anni. “Duemila anni di calunnie”, come diceva nel titolo del suo saggio (ed. Marsilio) Massimo Fini; e come sottolineava Edoardo Sylos Labini nel suo spettacolo teatrale del 2015, quando, per primo, decise di mettere in scena la vicenda alternativa – e ormai considerata reale dagli storici – di Lucio Domizio Enobarbo, in “arte” Nerone.

La nostra volontà di “giocare” con il nuovo nome dell’imperatore – che lo assunse quando venne adottato dall’imperatore Claudio – è legata a uno degli aspetti più notevoli di Nerone. Che fu senz’altro un grande uomo di stato, nonostante la pessima “stampa” di cui dicevamo, dovuta in gran parte al fatto di essere a favore del popolo e inviso invece all’aristocrazia di cui facevano parte anche i suoi biografi; ma che fu anche il primo degli antieroi, dei ribelli, dei miti popolari vissuti bruciandosi (e non bruciando…) invece che spegnendosi lentamente. E che morì giovane, suicida. Come Rimbaud, come James Dean, ma ancor di più come una moderna star del rock o del pop.

 

Una vita e una fine tormentate, che come raccontava Sylos Labini si svolgevano nella Domus Aurea – il suo palazzo imperiale – attorniato da una corte di mimi, ballerini, musicisti e prostitute; e dove lui, poeta, “chitarrista”, attore, viveva la tempesta di sentimenti, paure e riflessioni che lo accompagneranno verso la fine.

 

Ancora, oggi, due anni dopo quello spettacolo che, oltre alla rivalutazione della figura dell’imperatore, si poneva come obiettivo l’analisi degli ultimi tragici giorni di un (anti)eroe decaduto – tema caro a Sylos Labini, che lo affronterà altre volte, la più recente col suo “d’Annunzio segreto”- la figura di Nerone diventa la chiave per creare uno spettacolo teatrale moderno e importante. Seppur con un piglio diverso: non con l’occhio introspettivo del regista di Pomezia, ma ponendo il focus sulla figura iconica e “pop” del cesare. E per farlo, in linea con questo aspetto, la formula scelta è quella del musical.

Si tratta di “DIVO NERONE – OPERA ROCK. Il musical più infuocato della storia”, dal 7 giugno a Vigna Barberini, sul Colle Palatino a Roma. Ed è destinato a diventare l’evento più importante della stagione romana: si tratta infatti di un vero kolossal, firmato dal tre volte premio Oscar Dante Ferretti per la scenografia, dall’altrettanto triplice premio Oscar Francesca Lo Schiavo agli arredi e alle decorazioni, dal premio Oscar Gabriella Pescucci per i costumi, e dal premio Oscar Luis Bacalov che si occupa delle musiche insieme con il duplice premio Grammy Franco Migliacci, ideatore dell’opera. La direzione artistica è del figlio, Ernesto Migliacci. La regia è di uno dei massimi registi italiani, ovvero Gino Landi, e le coreografie sono di Marco Sellati.

L’intenzione è insomma quella di fare di Nerone il protagonista del più sensazionale spettacolo d’intrattenimento made in Italy mai realizzato prima, come giustamente sostiene Cristian Casella, che firma la produzione.

Importantissimo anche il contributo di un’altra eccellenza italiana: quella dell’istituto per le tecnologie applicate ai beni culturali del CNR, che contribuisce a creare – nel contesto delle aree in cui l’imperatore visse – gli scenari tridimensionali che riproducono le sontuosità architettoniche dell’epoca.

Un vero e proprio viaggio attraverso i secoli, quindi, che rende lo spettacolo un importante promotore culturale, artistico, turistico ed archeologico al contempo, con l’aspirazione di diventare l’evento irrinunciabile per chiunque passi dalla Capitale.
A testimonianza dell’eccellenza della nostra storia, ma anche dell’importanza del nostro presente.

 

Intervista a Paolo Baratta
11 Mag

Intervista a Paolo Baratta

La 57ma Esposizione Internazionale d'Arte della Biennale di Venezia apre sabato 13 maggio, ancora una volta - come già nella precedente edizione - anticipando di un mese rispetto alle aperture precedenti.

Ed è nel segno della continuità che questa ennesima Biennale presieduta da Paolo Baratta si pone: ancora una volta il focus viene posto sull'osservazione del fenomeno della creazione artistica nel contesto contemporaneo e del rapporto tra l'artista e il pubblico, come già abbiamo potuto osservare nelle ultime tre edizioni.

Se Bice Curiger nel 2011 rivolse la sua attenzione all'illuminazione, alla percezione e al rapporto tra artista e spettatori, Massimiliano Gioni nel 2013 alle forze creative interiori che spingono l'uomo a divenire artefice per sé e per gli altri e Okwui Enwezor nell'ultima esposizione a come l'attuale "age of anxiety" sia decisiva nello stabilire l'imprescindibile legame tra l'arte e la realtà sociopolitica umana, Christine Macel chiude quest'anno il cerchio ponendo al centro della manifestazione l'Uomo Artista; indagandone profondamente i meccanismi, ciò che conduce, giorno dopo giorno, dal concetto all'opera ed infine al rapporto con il pubblico.

Il Presidente nel 2015, in occasione dell'ultima Biennale, parlava giustamente di una sorta di "trilogia" relativa alle tre esposizioni più recenti. Il discorso però non pare essere concluso, e l'approccio in forma di ricerca - caratteristica ormai peculiare delle esposizioni da lui presiedute - torna a manifestarsi in maniera decisa.

Baratta, oltre a ribadire - assieme a Macel - il concetto che l'arte sia un atto non di accomodamento o di consumo, ma di libertà e resistenza, vuole che il pubblico possa rendere l'arte stessa sempre più propria e considerare la Biennale come una dilatazione di sé, sottolineando nuovamente la funzione pedagogica dell'esposizione: non già come imposizione di un'idea, ma come accompagnamento alla conoscenza, che deve essere soprattutto emotiva piuttosto che letteraria. Lo scopo è quello di "fare scoprire che ci sono altri mondi che si possono desiderare": e per farlo, oltre al "viaggio" pianificato da Macel tramite i nove transpadiglioni tematici che indagano le ispirazioni e i temi degli artisti e li suddividono in "famiglie", questa esposizione si caratterizza per le molteplici iniziative volte all'incontro con l'artista in un contesto di fertile tempo libero. L'utilizzo del tempo libero - massima conquista della modernità assieme al benessere fisico - è una questione importante, e la soluzione proposta dall'artista è quello di usarlo per trasferirsi verso un mondo più vasto, più ampio e dilatato: un invito a essere dei coerenti cittadini del mondo, non solamente dei consumatori affrettati.

E pranzando e discutendo con gli artisti, o ancora osservando la loro quotidianità, ponendo l'attenzione sul loro otium inteso - come da etimo - in chiave costruttiva, piuttosto che sul negotium, cui attiene la parte più "professionale" dell'artista (per tacere della componente del "bellum", che Christine Macel ha giustamente escluso rispetto alla frase ciceroniana), il pubblico della Biennale può trarre preziose e illuminanti indicazioni, oltre che percepire l’importanza della figura dell’Artefice nel contesto sociopolitico odierno.

Abbiamo posto a Paolo Baratta tre domande.

 

Una nuova Biennale dalla forte connotazione sociopolitica. Rispetto alla precedente però non ci pare vi siano state “critiche” relative alla politicizzazione dell’esposizione...

Politicizzata" non è sinonimo di "politica": qualcosa è politicizzato quando ha una tinta particolare per quanto riguarda le ricette sul nostro futuro.

 

Ma è possibile fare arte contemporanea che non sia politica?

È possibile fare una Biennale che sia politica: la Biennale può essere altamente politica se parla di noi, cercando di aiutarci a conoscere meglio quello che siamo. E se nel mondo l'atteggiamento generale è quello di restringere i propri orizzonti a poche verità, a poche identità, a pochi frammenti una Biennale che insiste sul dilatare, insiste sul fatto che l'uomo sia tante cose insieme e attraverso molteplici e diversi padiglioni mostra al visitatore diversi specchi di sé stesso è una Biennale che sta facendo politica.

 

Quale è stata la reazione degli artisti all'idea del confronto e dell'incontro diretto col pubblico? Senza fare nomi, c'è stato qualcuno "da convincere"?

Non ne ho notizia. Piuttosto possono esserci degli impegni che non consentano alcune date.
Gli artisti in realtà sono abituati, ognuno di loro ha già il suo kit: le sue immagini, il suo video... Non vengono dalle caverne, hanno già la consuetudine di presentarsi e di presentare il proprio lavoro. Certamente farlo in questo modo, per dare l’occasione al visitatore di rapportarsi con loro, è meno comune: poter avere una certa dimestichezza con l'artista e la possibilità di fargli delle domande dirette intorno a un tavolo - che è, appunto, il momento dell'otium, il momento nel quale ciascuno cede un po' di sé stesso e si considera più libero, più autonomo - è una modalità particolare che avvicina, favorisce il dialogo e aiuta a capire e a capirsi. Chiaramente è stato fatto in funzione del pubblico più che non degli artisti, ma è stata da essi assolutamente condiviso. La decisione, l’idea è stata ovviamente della curatrice nel contesto del suo percorso: la tavola col cibo, diciamo, è stata apparecchiata da lei; ma poi chiaramente tutto ciò che capita è il risultato di un pieno accordo.

Viva Arte Viva - la 57ma Biennale di Venezia
10 Mag

Viva Arte Viva - la 57ma Biennale di Venezia

La 57ma Esposizione internazionale d'arte si intitola "Viva Arte Viva".

Un’edizione della Biennale di Venezia che si caratterizza per il suo focus insolito: l’Artista stesso.
È proprio questo il senso dato dalla curatrice, Christine Macel al titolo di quest’anno: un’indagine, un racconto della componente più viva dell’arte. Ovvero, l’Artefice.

Come dice lo stesso presidente Paolo Baratta, la Biennale - che, a prescindere dal tema di volta in volta scelto, pone una particolare attenzione al dialogo tra gli artisti e il pubblico - porta quest’anno al centro il dialogo stesso. E lo fa celebrando chi l’arte la crea, permettendo a noi tutti di accrescere e dilatare la nostra prospettiva.

Una sorta di neo-umanesimo insomma: che celebra non tanto l’uomo in quanto tale, ma la capacità dell’uomo - tramite l’arte - di non essere dominato dalle forze avverse della realtà.
E in cui l’atto artistico diventa atto di resistenza, di liberazione, di generosità; un gesto pubblico, che l’artista compie per tutti.
Nove sono i capitoli, ideali padiglioni trasversali e transnazionali, che - snodandosi lungo un percorso che vuole rappresentare un viaggio dall’interiorità all’infinito - riuniscono in sé altrettante “famiglie di artisti”, affiancandosi ai padiglioni tradizionali di 87 paesi.

Dall’indagine sul rapporto tra otium - inteso come momento in cui ci si lascia andare all’ispirazione - e negotium, ovvero l’aspetto professionale dell’attività raccontato nel primo padiglione, quello degli artisti e dei libri fino all’ultimo, quello del Tempo e dell’Infinito, che si focalizza sul rapporto con il flusso temporale e l’inevitabile morte, ogni approccio degli artisti con la vita, e con la sua rappresentazione, viene approfondito.

La celebrazione avviene anche tramite una serie di eventi paralleli che mettono in atto il dialogo tra l’artefice e lo spettatore: dalla Tavola Aperta, un pranzo bisettimanale con gli artisti trasmesso anche in streaming web, ai video di Pratiche d’Artista, che illustrano il suo modus operandi, fino al progetto La mia Biblioteca, che diventa reale ed ospita, nei giardini Stirling, le letture preferite dagli artisti.

Notevole è anche il fatto che dei 120 artisti invitati, ben 103 siano qui alla Biennale per la prima volta: segno evidente della fiducia riposta nei confronti dell’arte; o, per meglio dire, degli artisti.
La Biennale a Venezia sarà aperta al pubblico fino a domenica 26 novembre 2017.

Keith Haring a Palazzo Reale
22 Feb

Keith Haring a Palazzo Reale

A Milano, a Palazzo Reale, dal 21 febbraio al 18 giugno 2017 c'è “Keith Haring - About Art”.

La regola che vuole che ogni artista abbia dei debiti nei confronti della grande arte del passato è a volte, quando si tratta di artisti moderni, difficile da verificarsi con immediatezza.
Quando poi l'artista in questione ha un tratto talmente inconfondibile e unico da essere immediatamente identificabile, e si immedesima più che mai con la modernità - e non solo a livello stilistico - il compito è a volte ancora più arduo.

Haring, artista emblematico dell'ultima grande rivoluzione controculturale e urbana - quella degli anni ottanta, dell'Hip-hop e della street art - attinge invece a piene mani - secondo la visione del curatore Gianni Mercurio - alla grande storia dell'arte del vecchio continente. E la mostra pone il focus proprio su questo aspetto.

Come i grandi padri del rap classico si rifacevano fortemente - pur nella loro quasi clamorosa originalità - a tradizioni come quelle black, dal blues al soul, o quelle europee della nuova musica elettronica, Haring fu grande osservatore della tradizione artistica. E non solo; la fame di cultura dell'artista, onnivora, spaziava dalla letteratura al cinema, dalla saggistica alla semiologia.

La mostra, promossa e prodotta dal Comune di Milano-Cultura, Palazzo Reale, 24 ORE Cultura , con il prezioso contributo della Keith Haring Foundation , presenta 110 opere, molte di dimensioni monumentali e inedite. E, a dimostrazione del rapporto tra Haring e la storia dell'arte, il percorso espositivo pone i lavori dell'artista americano in dialogo con le sue fonti di ispirazione: dall'arte classica a quella precolombiana, dalle figure archetipiche alle creazioni degli indigeni del Pacifico e a quelli americani, da Bosch a Masaccio passando per il Rinascimento e fino ai maestri del Novecento come Pollock, Chagall o Klee.

Haring, in netta controtendenza rispetto agli artisti pop - nel senso di popolari, da Dalì in poi, passando per Warhol per arrivare all'evanescente Banksy, che fa della sua assenza una grande presenza - tutto fu fuorché un personaggio mediatico.

La sua arte, fatta di schemi ripetitivi, è più un segno grafico che pittura. Eppure la sua forza, l'impatto estetico dei suoi lavori, è dirompente. E questo è dovuto alla potenza del suo messaggio sociale e politico, che seppe farsi segno dei tempi.

Fino alla sua morte fulminea e prematura, nel 1990, lavorò senza sosta per comunicare le sue opinioni, attraverso le sue visioni. Fu tra l’altro proprio in Italia, sulla parete esterna della canonica di Sant'Antonio abate a Pisa, che l’artista eseguì uno dei suoi più importanti lavori: “Tuttomondo”, ovvero il più grande murale europeo. La sua ultima opera pubblica, l’unica pensata per rimanere permanente.
Eppure questa esposizione dimostra che, nonostante i limiti oggettivi che la street art pone alla volontà di eternare, quando il messaggio è forte e il segno è irripetibile, l’arte resta per sempre.

La prima volta di Raffaello al cinema
24 Mar

La prima volta di Raffaello al cinema

Sky e Nexo Digital, in collaborazione con i Musei Vaticani, e con Magnitudo Film, presentano il quarto film d’arte per il cinema: Raffaello – il Principe delle Arti – in 3D, la prima trasposizione cinematografica mai realizzata su Raffaello Sanzio (1483-1520) che sarà nelle sale italiane il 3, 4 e 5 aprile e poi distribuito nei cinema di 60 paesi del mondo. Il film è stato riconosciuto di interesse culturale dal MiBACT – Direzione Generale Cinema. Si tratta di una grande produzione che segue il percorso già tracciato dai tre progetti precedenti, dedicati ai Musei Vaticani, a Firenze e gli Uffizi e a San Pietro e le Basiliche Papali di Roma.
Approfondimenti sulla grande arte rinascimentale tra Roma e Firenze, a metà tra il bio e il docupic, a cui le evolute tecniche di ripresa in 3D ed UHD donano un coinvolgimento notevole e totalizzante.

Dalle digressioni biografiche e tecniche affidate a celebri storici dell’arte – alle ricostruzioni storiche, ispirate ai dipinti ottocenteschi che ritraevano episodi della vita di Raffaello, qui interpretato dall’attore e regista Flavio Parenti, il film racconta la vita del grande Maestro urbinate.

Ed è proprio da Urbino, dalla casa natale di Raffaello, che inizia il racconto. Ovvero dalla scoperta del talento precocissimo dell’artista da parte del padre, il pittore Giovanni Santi, scomparso – come la moglie – quando Raffaello era ancora bambino.

Urbino, all’epoca centro artistico di primaria importanza a livello europeo, fu fondamentale per la formazione del pittore, che aveva accesso, grazie al padre, a Palazzo Ducale e alle grandi opere lì presenti. E altrettanto importante fu poi entrare nella bottega del Perugino.

E fu ispirandosi a un’analoga opera dello stesso Perugino, lo Sposalizio della Vergine, che Raffaello superò il maestro e tracciò un solco incolmabile con la pittura precedente, stabilendo nuovi, elevatissimi standard che lo porteranno nel seguente periodo fiorentino a misurarsi con gli altri due grandi innovatori dell’epoca, Leonardo e Michelangelo. E poi, con il Buonarroti, sotto Papa Giulio II e poi Leone X, a creare a Roma e in Vaticano le immense opere che renderanno quell’arte eterna.

Intervista a Francesco Bonami
07 Giu

Intervista a Francesco Bonami

Scenario: il PAC, ovvero il Padiglione di Arte Contemporanea di Milano. È ancora in corso l’esposizione di Jeff Wall (NDA: ci sono stata qualche mese fa, è bellissima: se amate la fotografia andateci assolutamente), e il museo si fa per l’occasione location di un evento particolare:  la presentazione del nuovo libro di Francesco Bonami, critico e curatore di fama internazionale.
Tra orde di giovani fan di Bonami che lo cercano ed invocano quasi fosse una rockstar, battute del crititco, botta e risposta di Bonami e Pif, ad un certo punto una elegantissima signora sbotta. “Scusate eh!, però io non capisco tutto questo avanspettacolo… e ancora non si è parlato del libro! No, cioè, perché se uno viene a una presentazione di un libro si aspetta di sentire parlare del libro…”
Il Nostro non si scompone. Invece, risponde alla signora distratta (che nel frattempo continuava a dire la sua): “Beh signora, se lei comprerà il libro – che a questo punto le sconsiglio di comprare se questo tipo di atmosfera non è di suo gradimento – noterà che del libro abbiamo parlato, eccome.”

Ed è veramente così. “Mamma voglio fare l’artista!” (Electa) è effettivamente un vademecum che, come indica il sottotitolo, fornisce all’aspirante artista delle “istruzioni per evitare delusioni”; ma il tutto è scritto in chiave spesso ironica, divertita e divertente. Ed è – sostanzialmente – un’autobiografia. Il fatto che venga trattata tra il serio e il faceto, quindi, ci rasserena. Perché ci fa capire che Bonami ha superato alla grande tutti i traumi dovuti alle sue delusioni. E ora non abbiamo in lui un grande artista, ma tant’è: abbiamo comunque un Maestro. Inteso come guida e punto di riferimento.

Anche se su questo termine si può far confusione, almeno in Italia…
Proprio parlando di ciò ho iniziato la mia intervista a Francesco Bonami.

Francesco Bonami e Pif

E’ molto interessante il discorso che ha fatto nel libro sul termine “Maestro” (che viene indicato come il massimo titolo possibile, più che “Dottore” o “Professore”), ma forse è davvero chiaro solo nei paesi anglosassoni. Si figuri che una volta ho chiamato Maestro Bonito Oliva e lui mi ha risposto piccato “… io non insegno mica alle elementari!” Ho dovuto ripiegare su “Professore” per ammansirlo. Ma è possibile che lo stesso Bonito Oliva, che di maestri dovrebbe intendersene, faccia confusione sul termine?
Beh, è questione di come ognuno vede se stesso. Chiaramente – in modo particolare in Italia – il termine “professore” è più altisonante. “Maestro”, pur potendo intendersi più in generale come riferito a una figura estremamente autorevole e illuminante, di solito si riferisce ad un artista. Quindi, non essendo lui artista, forse da un punto di vista tecnico non è un maestro; e il maestro che potrebbe essere sarebbe quello delle elementari. Purtroppo, però, Bonito Oliva non insegna alle elementari, il che sarebbe meglio, perché potrebbe dire delle cose interessanti anche ai bambini.

 

Nel libro, lei paragona il grande Artista ad un Papa, che non dovrebbe accontentarsi di rimanere un umile parroco. Lei era convinto di poter diventare Papa e quindi di poter predicare il Verbo, invece è diventato un ottimo teologo. Come ha vissuto questa realtà? è stato un ridimensionamento o una riscoperta di sé?
Accidenti… ma questa è una domanda.. come si dice, è stato giocoforza. Uno scopre di non poter aspirare ad essere Papa: a quel punto può decidere di essere un ottimo parroco di una parrocchia di città o paesello, può decidere di farsi frate, può decidere di incattivirsi e diventare un terrorista, oppure può diventare un teologo… Ora, teologo mi sembra una parola molto grossa. Diciamo che mi sono riciclato, ho fatto buon viso a cattivo gioco, non potendo diventare Papa ho provato a capire perché ci sono persone che diventano Papa.

 

Quanto pensa che questo libro sia veramente utile? Sembra che lei voglia dare dei consigli agli aspiranti artisti. Ma un vero artista non dovrebbe ritrovarsi a fare questo percorso naturalmente da solo?
Il libro ha parecchio di autobiografico, di fatto io racconto la mia storia. E va detto che molto spesso quando io ho letto, ho visto e osservato la storia degli altri ho imparato delle cose. Quindi, spero che leggendo il libro si possano imparare delle cose. Non che venga seguito per filo e per segno: fare l’artista richiede anche un grosso egocentrismo e quindi anche una capacità di non ascoltare gli altri. Quindi immagino che molti lo leggeranno e saranno contrari a quello che dico, oppure che molti lo leggeranno e faranno finta di aver capito, ma poi si comporteranno ugualmente a modo loro.
Io l’ho scritto non con l’intento di fornire delle regole “da seguire alla lettera”, ma conscio del fatto che certi input entrano dentro la testa e magari uno se li ricorda in determinate situazioni. Che so, magari un giorno un artista sta per attraversare la strada per placcare un critico e assillarlo con le proprie opere, gli torna in mente quello che ho scritto io e si dice “No! Non lo faccio!”, evitando di crearsi un’antipatia. Anche se poi sicuramente ognuno certe cose deve viverle sulla propria pelle.

 

Se un giorno arrivasse suo figlio da lei e le dicesse: “Papà, ho deciso, voglio fare il prete!” Come reagirebbe?
Beh, io sarei contento.

 

…o il terzino? (NDA: il libro inizia proprio dal racconto di Bonami che, da piccolo, si vedeva costretto a fare il terzino assieme ai compagni più scarsi)
Il terzino mi preoccupa, perché il prete in fondo è più vicino all’artista; non ho alcun disprezzo verso i preti, fare il prete è già un sacrificio, uno lo fa e accetta già il fallimento, nel senso che convertire la gente è più difficile che convertirla alla propria arte. Quindi, se volesse fare il prete mi preoccuperei più che altro perché è una vita faticosa.  Se volesse fare il terzino, mi stringerei nelle spalle perché non è una questione di vocazione. Però sono sicuro che da padre…

 

Ha figli?
Sì, ne ho due. E sono femmine. Quindi – almeno per ora – non possono dirmi di volersi fare prete. Però potrebbero dirmi di volersi fare monaca o suora. Non potrei che accettare, io credo che le vocazioni vadano tutte rispettate. Come dicevo, invece, quella del terzino non è una vocazione: è una fortuna se uno gioca veramente molto bene, o una sfortuna se gioca così bene da trascurare di sviluppare il cervello esclusivamente a vantaggio delle gambe inferiori…

Va beh, le gambe son sempre inferiori.

 

E dopo quest’ultima frase, che ha magicamente ricondotto la nostra chiacchierata nell’alveo dell’atmosfera da avanspettacolo, con la signora che ancora strepitava, lasciai il Maestro Bonami in pasto ai suoi giovani fan.
Speriamo che leggano con attenzione il suo libro.

 

Guido Crepax. Ritratto di un artista
20 Giu

Guido Crepax. Ritratto di un artista

Sessanta, Settanta, Ottanta.
Sessanta gli anni in cui si afferma; Settanta, gli anni che aveva quando ci ha lasciati. Ottanta, gli anni che avrebbe oggi.

Ma sono poche le figure per cui, in realtà, il tempo è qualcosa di estremamente relativo come per Guido Crepax. La sua eroina per eccellenza, Valentina, icona incontrastata degli anni Sessanta, è “invecchiata” – caso più unico che raro – assieme al suo autore. E, nel farlo, non è mai stata vecchia. Non è mai stata prigioniera di un’età, di una generazione. Nemmeno di un’arte, che fosse la propria – lei, fotografa, sin dal 1965, quando certamente non era frequente che ci fossero donne fotografe di moda – o che fosse quella che l’ha resa nota, o meglio reale, ovvero il fumetto.

Valentina, nelle sue strisce, si muove su sceneggiature e ritmi cinematografici. Circondata da oggetti di design, vestita da abiti che dalle sue storie riusciva perfino a imporre alla moda.

Lei, alter ego del suo creatore, che questi abiti li scopriva prima che arrivassero sulle riviste italiane, che era nato designer e architetto, che seppe portare nella nona arte la contaminazione della settima e della seconda, ridefinendone di fatto le dinamiche. E questo fece di Crepax uno dei massimi innovatori del fumetto e del suo linguaggio, o meglio ancora uno dei suoi massimi artisti: uno che sognava che il fumetto si facesse arte, e anche che l’arte si facesse fumetto – come dimostrano le sue rivisitazioni e citazioni di classici della letteratura e dell’arte figurativa.

Scriveva Umberto Eco, che di linguaggi se ne intendeva parecchio:

“Con Crepax cambiava il senso del tempo nel fumetto, ovvero il rapporto tra spazio e tempo… due inquadrature potevano suggerire contemporaneità, come se il lettore voltasse rapidamente la testa da una parte e dall’altra di una scena, cogliendo nello stesso istante due particolari diversi”.
Sembrerebbe di leggere di un regista, se sostituissimo a “fumetto” la parola “cinema”.

In occasione del decennale della scomparsa, e grazie ad Archivio Crepax – gestito dagli eredi di Guido, che hanno curato interamente il progetto – apre dal 20 giugno al 15 settembre 2013 la mostra “Guido Crepax: ritratto di un artista”, allestita nelle dieci sale dell’Appartamento di Riserva di Palazzo Reale a Milano.

L’esposizione mette per la prima volta l’autore in primo piano rispetto alla sua Valentina. Che, certo, è molto presente lungo quello che di fatto è un percorso tematico di approfondimento del mondo di Crepax, ma – almeno per una volta – non da protagonista, bensì da comprimaria. Da compagna; o, meglio ancora, da madrina.

Ognuna delle dieci sale dell’Appartamento di Riserva tratta un tema particolare dell’universo del suo autore, e di come questo abbia influenzato la sua opera: dal rapporto con la città di Milano a quello con la sua famiglia, da Valentina alle sue altre donne, dalla moda al design, dalla letteratura al cinema, alla fotografia, alla musica e all’arte. Un percorso, dicevamo, che approfondisce come mai prima l’opera di Crepax e le sue radici, sia tramite le oltre 4500 tavole originali esposte, che attraverso una quantità di oggetti di design ispirati dall’opera dell’autore; oltre ad esporre i frutti del suo lavoro come illustratore, grafico, pubblicitario e le chicche dei giochi in scatola da lui ideati e creati, sua grande passione.

I figli di Guido, alla conferenza stampa di ieri, raccontavano che questa – pur cadendo nel decennale della scomparsa, e a ottant’anni dalla nascita – non vuole essere una mostra commemorativa, ma una mostra vitale: che riesca, insomma, a porre in evidenza le dinamiche – direi proprio nel senso etimologico del termine, ovvero le “forze” – che animavano la vita creativa dell’autore.

E ci sono riusciti perfettamente.