Scenario: il PAC, ovvero il Padiglione di Arte Contemporanea di Milano. È ancora in corso l’esposizione di Jeff Wall (NDA: ci sono stata qualche mese fa, è bellissima: se amate la fotografia andateci assolutamente), e il museo si fa per l’occasione location di un evento particolare: la presentazione del nuovo libro di Francesco Bonami, critico e curatore di fama internazionale.
Tra orde di giovani fan di Bonami che lo cercano ed invocano quasi fosse una rockstar, battute del crititco, botta e risposta di Bonami e Pif, ad un certo punto una elegantissima signora sbotta. “Scusate eh!, però io non capisco tutto questo avanspettacolo… e ancora non si è parlato del libro! No, cioè, perché se uno viene a una presentazione di un libro si aspetta di sentire parlare del libro…”
Il Nostro non si scompone. Invece, risponde alla signora distratta (che nel frattempo continuava a dire la sua): “Beh signora, se lei comprerà il libro – che a questo punto le sconsiglio di comprare se questo tipo di atmosfera non è di suo gradimento – noterà che del libro abbiamo parlato, eccome.”
Ed è veramente così. “Mamma voglio fare l’artista!” (Electa) è effettivamente un vademecum che, come indica il sottotitolo, fornisce all’aspirante artista delle “istruzioni per evitare delusioni”; ma il tutto è scritto in chiave spesso ironica, divertita e divertente. Ed è – sostanzialmente – un’autobiografia. Il fatto che venga trattata tra il serio e il faceto, quindi, ci rasserena. Perché ci fa capire che Bonami ha superato alla grande tutti i traumi dovuti alle sue delusioni. E ora non abbiamo in lui un grande artista, ma tant’è: abbiamo comunque un Maestro. Inteso come guida e punto di riferimento.
Anche se su questo termine si può far confusione, almeno in Italia…
Proprio parlando di ciò ho iniziato la mia intervista a Francesco Bonami.
E’ molto interessante il discorso che ha fatto nel libro sul termine “Maestro” (che viene indicato come il massimo titolo possibile, più che “Dottore” o “Professore”), ma forse è davvero chiaro solo nei paesi anglosassoni. Si figuri che una volta ho chiamato Maestro Bonito Oliva e lui mi ha risposto piccato “… io non insegno mica alle elementari!” Ho dovuto ripiegare su “Professore” per ammansirlo. Ma è possibile che lo stesso Bonito Oliva, che di maestri dovrebbe intendersene, faccia confusione sul termine?
Beh, è questione di come ognuno vede se stesso. Chiaramente – in modo particolare in Italia – il termine “professore” è più altisonante. “Maestro”, pur potendo intendersi più in generale come riferito a una figura estremamente autorevole e illuminante, di solito si riferisce ad un artista. Quindi, non essendo lui artista, forse da un punto di vista tecnico non è un maestro; e il maestro che potrebbe essere sarebbe quello delle elementari. Purtroppo, però, Bonito Oliva non insegna alle elementari, il che sarebbe meglio, perché potrebbe dire delle cose interessanti anche ai bambini.
Nel libro, lei paragona il grande Artista ad un Papa, che non dovrebbe accontentarsi di rimanere un umile parroco. Lei era convinto di poter diventare Papa e quindi di poter predicare il Verbo, invece è diventato un ottimo teologo. Come ha vissuto questa realtà? è stato un ridimensionamento o una riscoperta di sé?
Accidenti… ma questa è una domanda.. come si dice, è stato giocoforza. Uno scopre di non poter aspirare ad essere Papa: a quel punto può decidere di essere un ottimo parroco di una parrocchia di città o paesello, può decidere di farsi frate, può decidere di incattivirsi e diventare un terrorista, oppure può diventare un teologo… Ora, teologo mi sembra una parola molto grossa. Diciamo che mi sono riciclato, ho fatto buon viso a cattivo gioco, non potendo diventare Papa ho provato a capire perché ci sono persone che diventano Papa.
Quanto pensa che questo libro sia veramente utile? Sembra che lei voglia dare dei consigli agli aspiranti artisti. Ma un vero artista non dovrebbe ritrovarsi a fare questo percorso naturalmente da solo?
Il libro ha parecchio di autobiografico, di fatto io racconto la mia storia. E va detto che molto spesso quando io ho letto, ho visto e osservato la storia degli altri ho imparato delle cose. Quindi, spero che leggendo il libro si possano imparare delle cose. Non che venga seguito per filo e per segno: fare l’artista richiede anche un grosso egocentrismo e quindi anche una capacità di non ascoltare gli altri. Quindi immagino che molti lo leggeranno e saranno contrari a quello che dico, oppure che molti lo leggeranno e faranno finta di aver capito, ma poi si comporteranno ugualmente a modo loro.
Io l’ho scritto non con l’intento di fornire delle regole “da seguire alla lettera”, ma conscio del fatto che certi input entrano dentro la testa e magari uno se li ricorda in determinate situazioni. Che so, magari un giorno un artista sta per attraversare la strada per placcare un critico e assillarlo con le proprie opere, gli torna in mente quello che ho scritto io e si dice “No! Non lo faccio!”, evitando di crearsi un’antipatia. Anche se poi sicuramente ognuno certe cose deve viverle sulla propria pelle.
Se un giorno arrivasse suo figlio da lei e le dicesse: “Papà, ho deciso, voglio fare il prete!” Come reagirebbe?
Beh, io sarei contento.
…o il terzino? (NDA: il libro inizia proprio dal racconto di Bonami che, da piccolo, si vedeva costretto a fare il terzino assieme ai compagni più scarsi)
Il terzino mi preoccupa, perché il prete in fondo è più vicino all’artista; non ho alcun disprezzo verso i preti, fare il prete è già un sacrificio, uno lo fa e accetta già il fallimento, nel senso che convertire la gente è più difficile che convertirla alla propria arte. Quindi, se volesse fare il prete mi preoccuperei più che altro perché è una vita faticosa. Se volesse fare il terzino, mi stringerei nelle spalle perché non è una questione di vocazione. Però sono sicuro che da padre…
Ha figli?
Sì, ne ho due. E sono femmine. Quindi – almeno per ora – non possono dirmi di volersi fare prete. Però potrebbero dirmi di volersi fare monaca o suora. Non potrei che accettare, io credo che le vocazioni vadano tutte rispettate. Come dicevo, invece, quella del terzino non è una vocazione: è una fortuna se uno gioca veramente molto bene, o una sfortuna se gioca così bene da trascurare di sviluppare il cervello esclusivamente a vantaggio delle gambe inferiori…
Va beh, le gambe son sempre inferiori.
E dopo quest’ultima frase, che ha magicamente ricondotto la nostra chiacchierata nell’alveo dell’atmosfera da avanspettacolo, con la signora che ancora strepitava, lasciai il Maestro Bonami in pasto ai suoi giovani fan.
Speriamo che leggano con attenzione il suo libro.
Al PAC di Milano, nel contesto della settimana della moda, Tod’s rende merito al Made in Italy e sottolinea la nobiltà del lavoro artigianale – che non a caso è etimologicamente legato al concetto di arte – tramite la performance VB Handmade di Vanessa Beecroft, prima dell’apertura della sfilata del brand principe del gruppo di Diego Della Valle.
L’intenzione è quella di sottolineare l’importanza di quel verbo, “Made“, restituendolo alle mani ed alla maestria dell’uomo. E, con l’opera della Beecroft, Della Valle intende anche lanciare un messaggio ai giovani, per avvicinarli a un lavoro importante – quello dell’artigiano – spesso sottovalutato.
Abbiamo rivolto alcune domande all’artista.
La moda ha da sempre guardato all’arte come fonte di ispirazione per trarre suggestioni da coniugare poi negli abiti. La reciprocità del rapporto, tranne in casi particolari come quello dei futuristi, non è mai stata particolarmente garantita, se non da eccezioni splendide, come è anche la sua. Quali sono i motivi forti per cui la moda può diventare elemento chiave per un’opera d’arte?
Si tratta del concetto che sta dietro alla scelta di un designer. Un esempio potrebbe essere Yves Saint Laurent che, nel creare un’immagine di donna diversa, le attribuisce dei nuovi valori. Non si tratta di una considerazione estetica, ma di qualcosa che comporta cambiamenti stilistici che sono simili a quelli che fa l’arte nell’arte. Quando le due operano in modo simile, che è quello secondo me di partire da un concetto che rivoluziona la società, allora l’arte e la moda si avvicinano. Ed è quello che ho fatto io stessa in questo lavoro: non ho pensato a un’estetica, prima ho pensato alla pelle, alla seconda pelle di una donna, all’operato di avvolgerla, di trafiggerla con degli aghi, e dal concetto è nata poi la forma. Quando la moda è a sua volta così radicale si può avvicinare all’arte.
La storia dei tableau vivant si rinnova costantemente, sin dal diciannovesimo secolo, ed è sempre attuale, andando di pari passo con l’evoluzione delle arti, della pittura, della fotografia e del teatro. Quali sono i suoi riferimenti più importanti?
La verità è che i miei riferimenti sono le pitture del rinascimento: non ho avuto immediati riferimenti di performers perchè sono sempre troppo… performativi. I miei riferimenti sono sempre state le immagini fisse, non potendo riprodurle con la pittura le ho realizzate con gli esseri umani.
L’aspetto effimero delle performance sembra essere più coerente, rispetto ad altri media da lei usati (scultura, fotografia, video…) nel coniugarsi ad un mondo che si tende a definire altrettanto effimero com’è quello della moda.
Ma l’arte per definizione non dovrebbe eternare?
Lo so, è una questione che mi sono posta. Il problema è nato dal fatto di credere di non riuscire a riprodurre con la pittura o la scultura ciò che trovavo immanente in una donna, nella figura femminile. Quindi per un certo periodo ho utilizzato la fotografia, che però non mi appartiene, dato che non sono una fotografa: l’ho fatto per poter ovviare all’assenza della performance una volta che se ne è andata – a parte, chiaramente, la forza della memoria – cercando di compensare con fotografie, disegni, pittura, ed oggi sculture in marmo. Ora mi trovo in un momento in cui sto cercando di capire se io possa allontanarmi dalla performance e concentrarmi finalmente sulla pittura. Dopo aver passato vent’anni in cui mi sono occupata prevalentemente di mostrare gli aspetti sociali, potrei adesso dedicarmi invece solo all’arte, e quindi alla forma, alla bellezza, al colore, all’estetica. Questo sarebbe un lusso che non mi sono ancora permessa.
Cosa si è risposta?
Ancora non lo so. Addirittura due giorni fa mi sono detta “adesso chiudo lo studio” perché ho l’impressione di non aver mai avuto il tempo prolungato di chiudermi in uno studio; forse da qui scaturisce il conflitto che poi genera questo tipo di opere e non la pittura.
La collaborazione con Tod’s, come è nata?
La collaborazione è nata in un momento molto critico perchè non avevo molto tempo a disposizione e non sapevo se ce l’avrei fatta. Ma Diego Della Valle è una persona che conosco per la sua sensibilità all’arte, e mi sono detta che quindi avrebbe capito il lavoro di un’artista. Ho anche chiesto dei consigli, ad esempio a Franca Sozzani che mi ha detto “fallo, sarai capita, non avere paura”. Mi preoccupava non riuscire a fare una cosa abbastanza buona in poco tempo. Ma ho avuto il conforto di persone che conoscono la famiglia e che hanno garantito la protezione intellettuale: questo mi ha dato molto coraggio.