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Intervista a Giorgio Marconi e a Roberta Cerini
20 Set

Intervista a Giorgio Marconi e a Roberta Cerini

A dieci anni dalla scomparsa dell’artista, la Fondazione Marconi allestisce la mostra “Enrico Baj. Segni e disegni”. Con questa esposizione, Giorgio Marconi e la sua fondazione intendono ricordarlo con una mostra di suoi disegni – tra i quali figurano alcuni inediti – ed esponendo un repertorio pressoché unico e diverso dagli altri, che consente di approfondire la conoscenza dell’artista milanese al di là della sua opera “maggiore”.

 

Abbiamo posto alcune domande a Giorgio Marconi e a Roberta Cerini, moglie di Baj, per poter conoscere più da vicino – grazie alla testimonianza di chi bene lo conosceva – un uomo che ha lasciato un vuoto difficilmente colmabile nel panorama dell’arte contemporanea italiana.

 

Giorgio Marconi

 

Intervista a Giorgio Marconi

 

La scorsa estate sono stata a Palazzo Reale per vedere “I funerali dell’Anarchico Pinelli”. Devo dire, da amante del surreale nell’arte, di essere stata invece inaspettatamente molto colpita ed emozionata dal senso fortemente realista dell’opera, in barba alle influenze surrealiste e dadaiste di Baj. Cosa pensa della capacità dell’artista di conciliare questi due aspetti?
Penso che tu abbia ragione. Lui è riuscito a rendere i personaggi visibili, e i loro visi leggibili, soprattutto quelli dei poliziotti e quello di Pinelli che cade con la bocca aperta come in un urlo.  Nell’opera ogni personaggio ha una sua qualificazione, uno che ha una divisa ha una sua meccanicità. E’ un quadro veramente figurativo, ma non è fatto solamente per raccontare, ma per stimolare la fantasia. Questo quadro è nato grazie alla conoscenza e alla memoria visiva di Baj, e quindi c’è un’atmosfera drammatica. È un quadro epico. Finalmente è stato esposto dove doveva essere esposto inizialmente, ma dopo 40 anni. Prima ha girato il mondo, Olanda, Belgio, Europa, America. Credo che l’opera finirà al Castello Sforzesco. Io non voglio regalarla al Comune, anzi, la voglio regalare ma con una clausola, ovvero che ogni tanto possa girare come ha già fatto, perché penso che sia un’importante opera di comunicazione, e può essere anche utile come forma di promozione per l’arte italiana.

 

Com’era l’uomo Enrico Baj?
Era socievole e sociale, voleva parlare con la gente. Era anarchico e antigovernativo, perché vedeva che in tanti anni il governo non aveva fatto niente. A volte votava e a volte no. Era uno che se poteva aiutava la gente. Ha aiutato persone anche economicamente. Lui rispettava l’uomo e la gente, e criticava quello che era orpello, che era in più. Era un uomo di cultura, scriveva, ha scritto diversi libri, lui era un intellettuale puro. Noi eravamo amici, tra tutti gli artisti che ho avuto sicuramente l’amico. Con lui ho fatto diversi viaggi, ricordo quando siamo andati a San Francisco, dopo un viaggio di venti ore il tassista voleva sbatterci giù perché sembrava litigassimo. Io sono una persona curiosa e chiedevo sempre a tutti gli artisti perché dipingessero. Quello che interessava a Baj era criticare. Analizzare, e cercare di sconfiggere tutte le superficialità. Enrico diceva: “Contro l’inumana linea retta del costruttore e del pianificatore lottai tutta la vita con alterne fortune”… Tutta la sua arte si basa sulla continua critica alla disumanità, al fatto di non accorgersi di non dover correre dietro al denaro ma più al sociale. Io leggevo in lui la volontà di essere utile. Lui era uno sanguigno e un intellettuale.

 

Leggendo gli “Scritti sull’Arte” di Baj, qualche tempo fa, ero piuttosto colpita dal suo discorso sulla mercificazione dell’arte e su Warhol in particolare. Ora, siccome ho sempre avuto la sensazione che il Warhol italiano, ovvero Schifano, non fosse certamente da meno, mi incuriosiva immaginare quale potesse essere il rapporto tra Baj e Schifano…
Due geni.. purtroppo però, uno dei due, per stupidaggine, per indole si è distrutto. Perché Schifano era dotatissimo dalla natura, ma credeva che con la droga sarebbe riuscito ad arrivare  ancora più in là. Era talmente bravo che riusciva a fare delle cose che sono incredibili. Però io un altro Schifano – quando è finito il periodo di sette anni del nostro sodalizio – non lo avrei più voluto. Ne avrei avuto paura. Perchè mi ha distrutto, io avevo tanti artisti e non potevo dedicarmi a una persona sola. Lui invece aveva bisogno di una balia. Quelle poche volte che l’ho visto dopo gli anni Settanta mi insultava sempre. Mi diceva: “Tu mi hai ucciso, perché se fossimo restati assieme io non sarei finito così, perché ti davo ascolto, e invece guarda come sono conciato…”

 

E invece il rapporto tra Schifano e Baj?
Niente… Baj stimava Schifano. Ma non gli interessava, per lui Schifano agiva in un mondo totalmente illogico. Schifano amava tutti ma non amava nessuno.

 

Lei però ha un ricordo molto intenso e vivo di Schifano…
… a questo punto Marconi mi dice: ”Vuol venire con me un momento?”, e visibilmente emozionato mi porta in una delle stanze della Fondazione. In fondo in un angolo vedo un quadretto con una foto, in alto a sinistra c’è Schifano. Marconi lo indica e mi dice “Questo è Schifano, questo è un quadro che io ho, guarda qua… era matto da legare.

 

Enrico Baj - Famiglia Baj, 1980

 

Intervista a Roberta Cerini

 

Alla Fondazione Marconi è esposta questa grandissima tela a carboncino, “La Famiglia Baj”… Sembra sottolineare l’importanza che la propria famiglia ha anche per l’Artista, il che è una cosa decisamente rara. Qual era il vostro rapporto con l’Enrico Baj artista?
Non credo che in famiglia cambi molto. A parte il fatto che non conoscendo altri rapporti familiari se non quelli con un artista, non so se ci siano delle differenze. Comunque è stato un rapporto normalissimo, genitori e figli, anche con i nostri piccoli scontri naturalmente. Devo però dire una cosa, e credo che questo gli venisse proprio dalla sua educazione borghese: lui aveva molto il senso della famiglia. Il senso proprio dell’istituzione familiare, della solidità della famiglia. Questo sicuramente. Purtroppo, oggi il valore della famiglia è un po’ andato perduto. Il fatto che la famiglia conti, che si costruisce e che si mantiene unita. Oggi è molto diverso, mi sembra che non si facciano granché sforzi in questo senso.

 

Lei ora cura l’archivio di suo marito. Leggevo però che raccontava di averlo aiutato, ad esempio, a realizzare l’opera del funerale dell’anarchico Pinelli. Veniva spesso coinvolta nella realizzazione delle sue opere?
Beh, ma guardi che il quadro era molto grande… lo abbiamo aiutato tutti. Chi passava di lì, attaccava il suo pezzettino. E qualche volta qualche manovalanza di incollaggio l’abbiamo fatta, ma niente di creativo, anche perché io ne sono proprio la negazione. Ancora adesso se i miei nipoti mi chiedono di fare un disegno viene fuori un disegno come quello dei bambini delle elementari. Non ho mai capito come lui riuscisse… mi è sempre rimasto questo senso di mistero di come lui tac- tac- tac, in quattro e quattro otto mettesse in piedi una cosa fantastica. Quindi, pura manovalanza. Al massimo mi chiedeva “ti sembra che questo colore vada meglio di quest’altro?” ma mai più di così.

 

Baj amava le muse. Lei è mai stata una musa, per suo marito?
Ah beh questo bisognava chiederlo a lui, io non lo so. Potrebbe essere… mah, sa, le muse inquietanti magari… (ride). È difficile dirlo, chiaramente poi vivendo vicino ad una persona per forza di cose in qualche modo si esercita un qualche tipo di influenza. Ma da lì ad essere una musa ispiratrice… Poi non lo so se Baj avesse delle muse ispiratrici, o se l’ispirazione fosse dentro di lui. Forse lo ispiravano di più i materiali, gli avvenimenti che le persone. Molto spesso era proprio dalle cose che aveva davanti che gli veniva l’idea, magari aveva lì una frangia o un fiocco in un certo modo… La cosa era ambivalente, cioè lui sceglieva i materiali ma poi erano i materiali stessi a suggerirgli le idee. Era una persona che amava fare, quindi lui faceva e bisognava sempre essere pronti a fare. Lui era uno che diceva una cosa e la faceva immediatamente, e devo dire che su questo io sono molto simile a lui.

 

A questo punto, non posso che chiederlo anche a lei…com’era l’uomo Enrico Baj?
Era un uomo molto attivo, uno che non stava mai fermo. Ecco, questa era la sua caratteristica principale secondo me. Poi parlava di futurismo statico, di contemplazione… ma in realtà lui era uno che se non era in movimento fisico era in movimento mentale. Era sempre lì che pensava anche quando non lavorava. E poi, soprattutto, era un uomo molto libero. Questo era l’altro suo aspetto più notevole, quello di essere libero da tutto, di non essersi mai fatto condizionare da niente. Ha sempre deciso lui quello che voleva essere e che voleva fare. Non si è mai fatto condizionare dall’ambiente, dal mercato e da tutte quelle cose che a volte condizionano la vita di un artista. Le sue scelte sono sempre state liberissime, su questo non ho dubbi.

 

Intervista a Luca Beatrice sulla mostra di Pollock
27 Set

Intervista a Luca Beatrice sulla mostra di Pollock

A Palazzo Reale, fino al 16 febbraio 2014, è in esposizione la mostra “Pollock e gli irascibili“, che porta a Milano cinquanta capolavori di quegli artisti, appartenenti alla cosiddetta “scuola di New York”, che per la prima volta – tra la fine degli anni Quaranta e il decennio successivo – spostarono oltreoceano il baricentro dell’arte.

Il nome “irascibili” deriva dal celebre episodio di protesta nei confronti del Metropolitan Museum – nel 1950 – per l’esclusione dalla mostra sull’arte contemporanea americana, e peraltro ben sintetizza l’attitudine dei protagonisti dell’Espressionismo Astratto.  La mostra ha come curatore – oltre a Carter Foster del museo Whitney di New York (da dove provengono le opere) – Luca Beatrice. A lui rivolgiamo alcune domande, per poter cogliere meglio alcuni aspetti di Pollock e degli “irascibili”.

 

Pollock svolge il caos sulla tela. Peraltro un caos apparentemente guidato da meccaniche divine, o se preferisci naturali, secondo alcuni studiosi. Secondo te il risultato presente sulle sue tele è casuale o causale?
È casuale e causale insieme, nel senso che lui organizza la tela come pendici per movimenti centripeti e centrifughi che si possono abbastanza facilmente individuare studiandone le composizioni, ma al contempo lascia evidentemente molto spazio al caso e alla capacità di  meravigliarsi per delle soluzioni impreviste.

 

Da un altro punto di vista, il caos di Pollock va di pari passo con quello portato nello stesso periodo dal Rock and Roll. “Liberami dal vecchiume”, come cantava Chuck Berry… quali sono le origini sociali comuni a questi fenomeni?
Innanzitutto c’è una ragione biografica nella storia di Jackson Pollock, che sicuramente è stata una persona -ancor prima che un artista – che ha dovuto combattere per tutta la vita contro la psicosi e l’alcolismo, e comunque con una ribellione di fondo che gli era propria. Nel caso del Rock and Roll tutti quanti sono giovani, ribelli, creano una spaccatura con la musica delle generazioni precedenti e cercano di inventare qualche cosa di nuovo. Ma se c’è una cosa che accomuna queste due esperienze, pur in ambiti molto diversi, è il senso del ritmo. Il ritmo diventa a questo punto l’elemento per far muovere intere generazioni che trovano (quelli più colti) nella pittura di Pollock la profonda differenza rispetto anche soltanto all’informale astratto europeo. Così come il Rock and Roll da Elvis in poi, ma non c’è soltanto lui, si distacca totalmente rispetto alla musica delle generazioni precedenti.

 

Ciò che accomuna in gran parte gli artisti “irascibili”, spesso piuttosto diversi per stile, mi pare essere una sorta di furia esplosiva volta a raggiungere la totale libertà. È così? E che altro c’è?
Se c’è una cosa interessante dell’espressionismo astratto americano è proprio questo fatto di non essere un movimento. Quindi, di racchiudere una serie di esperienze molto diverse tra di loro, che vanno dal dripping pollockiano fino all’astrazione quasi minimalista, preminimalista di autori come Rothko o soprattutto di Barnett Newman che è il più teorico del gruppo, o come i Color Fields di Morris Louis, e via dicendo… Quindi è di fatto una pittura che già sente arrivare in maniera molto rapida il senso della crisi, il fallimento di una teoria della certezza che l’aveva un po’ invasa negli anni 50. La cosa curiosa è che tra la morte di Pollock, che avviene nel 1956, e invece Monochrome Malerei, la mostra che si tiene a Leverkusen in Germania – praticamente il trionfo della pittura monocroma -, passando per esperienze come quelle di Fontana per fare un esempio non americano, passano veramente pochi anni. Vuol dire che Pollock rappresenta il punto massimo ma anche la coda finale di un’esperienza che si era già in parte consumata negli anni 40.

 

Laddove ci sia l’assenza del tecnicismo e la totale astrazione, cosa distingue un’ opera sinceramente grande da un esercizio di stile, un manierismo, una posa, piuttosto che proprio un brutto quadro?
Intanto secondo me lo Zeitgeist, cioè lo spirito del tempo, perché è chiaro che l’informale – chiamiamolo informale se vogliamo parlare di Europa, o espressionismo astratto se vogliamo parlare di America – è stato a lungo considerato l’arte degli anni ’50, nella fattispecie in America l’arte per eccellenza di quel periodo. Però va detto che da una parte abbiamo un periodo storico che sente proprio come un’esigenza questa esplosione incontrollata di forme o di colori, questo andare verso la totale spaccatura dell’immagine realistica che a questo punto non è più centrale nell’esperienza della pittura ma anzi marginale e ormai quasi ininfluente. D’altro canto, invece, col passare degli anni ritengo che la pittura astratta, l’informale, l’informale segnico, l’informale gestuale, diventino un po’ delle scuole, delle grandi maniere. Che, spesso, più ci avviciniamo ai nostri tempi e più nascondono a mio avviso la quasi totale incapacità di realizzare un quadro. Quando le cose sono portate oltre il loro tempo massimo rischiano (questo in qualsiasi ambito evidentemente) di diventare maniera. Però se in Europa e in Italia in particolare queste forme ormai hanno lasciato il posto ad altre esperienze completamente diverse, lo stesso non si può dire dell’America dove tuttora ci sono generazioni di pittori che continuano a dipingere con questo tipo di stile e di linguaggio. Si vede che proprio è connaturato all’esperienza della cultura americana.

Intervista a Gianluigi Colin
11 Ott

Intervista a Gianluigi Colin

Al “PArCo – Galleria d’arte moderna e contemporanea di Pordenone”, dal 14 settembre al 17 novembre 2013 è in esposizione “Caos Apparente”, il nuovo lavoro di Gianluigi Colin. Nato a Pordenone ma ormai milanese di adozione, Colin è artista nonché art director del Corriere della Sera. In “Caos Apparente”, come spiega l’artista stesso nell’intervista che segue, è chiave di lettura fondamentale della sua opera la convergenza tra l’arte e l’informazione. All’interno della mostra, uno specifico “Obbligatorio Fotografare” suggerisce ai visitatori di fissare con fotocamere e cellulari la propria individuale percezione delle opere per poi condividerla in rete, diventando essi stessi protagonisti di un progetto artistico.

 

Marina Abramovic sostiene che l’interazione col pubblico, rendendolo parte dell’opera, sia sempre più irrinunciabile. Quale ritiene sia l’importanza dell’obbligo di fotografare “Caos Apparente”, nel contesto del progetto stesso? Ciò detto, aggiungo solo che – dato che ogni volta che vado alle mostre devo cercare di nascondermi dai custodi per scattare qualche innocente foto senza flash – per me è stato comunque un gesto liberatorio…
Questa necessità irrefrenabile di fotografare alle mostre la provo sempre anche io. E sono felice quando mi ritrovo in alcuni posti, come l’Hermitage o la National Gallery, in cui è permesso farlo.  Inoltre, trovo sia bellissimo il rapporto con il personale che lavora nei musei o nelle gallerie, come per esempio i custodi: è interessante il dialogo che si può venire a creare attraverso la relazione del tuo sguardo da un lato con l’opera d’arte, e dall’altro con le persone che invece si ritrovano quotidianamente a “subire” le opere, vivendole non per il piacere di contemplarle ma come momento di lavoro. Questa è un’altra riflessione che mette simbolicamente in luce il rapporto di fruizione con l’opera d’arte. Chiaramente, nella Body Art, nelle performance di Marina Abramovic come di tutti gli altri, l’elemento essenziale sta proprio nel rapporto con il pubblico: ovvero, una performance ha senso non tanto e non solo per la riproduzione che poi verrà fatta della stessa, ma essenzialmente per la sua emozione, percezione e leggibilità. Sostanzialmente, è come andare a teatro: quindi l’interazione con il pubblico è fondamentale.
Per quanto riguarda me, molti dei miei lavori sono stati realizzati e svolti proprio in costante relazione con il pubblico. Questo vale nel caso di “Caos Apparente”, ma ancor di più in quello di un lavoro di qualche anno fa, “Vie di Memoria”, in cui chiedevo alle persone di darmi – appunto –  una parte della loro memoria privata, che fosse una fotografia, una lettera o un documento. In quel caso ho tracciato e poi elaborato davanti al pubblico queste memorie. Ho portato questa performance a New York, San Pietroburgo, Buenos Aires oltre che a Milano, Roma, Napoli e Pordenone, e in ogni situazione da un lato certificavo la memoria singola di ogni persona, ed al contempo elaboravo ognuna di esse, mettendole in relazione tra loro e tracciando così una memoria collettiva. Per me, quindi, il dialogo con il pubblico rappresenta un coinvolgimento non soltanto emotivo ma soprattutto concettuale: stimolo un gesto attivo da parte di chi entra in una mostra a guardare e a osservare. Nel caso di “Caos Apparente”  questo accade attraverso il fatto di scattare una fotografia, perché tale atto porta a far sì che si passi oltre alla semplice percezione. Peraltro, attraverso lo sguardo rivolto a 30.000 fotografie, il visitatore crea un proprio percorso personale, diventando egli stesso artista e in qualche modo protagonista di questa installazione.

 

A proposito delle 30000 fotografie, guardando questo vortice di immagini – che poi appartengono alla nostra conoscenza quotidiana, alla cronaca recente che ben conosciamo, e che in questo contesto vengono poste in questo modo a costituire un’opera – mi sono domandata se la loro collocazione fosse casuale, e quanto lo fosse.
Guarda… la nostra vita è frutto di incroci di situazioni casuali, ma di fatto alla fine nulla è davvero casuale perché la costruzione della nostra esistenza passa attraverso le nostre scelte. E anche questa grande installazione, con queste trentamila fotografie, rappresenta una metafora del nostro vivere – per non dire subire – il caos della comunicazione e delle immagini. Al tempo stesso, però, è anche un caos dentro il quale – e anche qui sta la definizione di “apparente” – ognuno ritrova il proprio percorso personale. Ho collocato le immagini in modo casuale in alcuni casi, mentre in altri ho voluto accostarne alcune ad altre specifiche proprio allo scopo di sollecitare un metalinguaggio che portasse ad un pensiero. Che è poi esattamente il pensiero che hai fatto tu.

Quali sono gli accostamenti “voluti”?
In certi casi ho voluto accostare alcuni protagonisti legati da un particolare aspetto: ad esempio, ho messo insieme Obama, il Papa, la Merkel, concentrando delle aree in cui la rappresentazione del mito del potere fosse più precisa. In altri ho indugiato invece sul tema della leggerezza, oppure su ciò che in qualche modo noi subiamo, come questo tsunami di immagini sul calcio. Che poi io dico “subiamo” perché ritengo che il calcio in molti casi sia diventato davvero una sorta di grande droga che richiama i panem et circenses, perchè non c’è più neanche il piacere del gesto atletico ma c’è invece tutta una costruzione di speculazioni economiche e di abbassamento delle coscienze.

Come dice Gillo Dorfles, l’arte non può non fare i conti con i mutamenti della società, e questo suscita nell’artista una tendenza di rivolta quando non addirittura di sovversione. Questo specialmente dopo il secondo dopoguerra, ovvero da quando l’informazione è diventata molto presente, potente e prepotente – penso a un Cartier-Bresson, archetipo del fotogiornalista ma soprattutto artista. Dato che i mezzi di comunicazione ci fanno pervenire delle informazioni che probabilmente sono state mediate, è realmente possibile fare al contempo arte e vera informazione, ovvero utilizzare queste informazioni mediate in un contesto artistico che dovrebbe essere immediato?
C’è una definizione bellissima di Pablo Picasso: “L’arte è una menzogna che dice la verità”. In questo senso, quello che personalmente io tento di fare è raccontare attraverso la metafora una grande verità. Questo mare di immagini estrapolate dal giornale è un racconto metaforico di una verità; ovvero,  in sé non è verità, ma paradossalmente al contempo lo è, poiché si tratta del racconto della nostra contemporaneità, in cui noi non siamo più capaci di vedere, perché persi dentro l’assuefazione del guardare, perché il nostro sguardo è saturato. Ovviamente  io non do soluzioni, ma l’intento è quello di invitare a vedere piuttosto che a guardare: perché la differenza è che il semplice atto del guardare porta ad una visione superficiale, mentre vedere significa coinvolgere anche la coscienza della percezione.

 

Sono rimasta personalmente piuttosto colpita dal suo lavoro, in “Presente Storico”, in cui mette a confronto immagini di reportage storiche con quadri memorabili del passato, dimostrando come ci sia una sorta di ricorso storico di certe situazioni e delle relative immagini. Ma secondo lei questo capita solamente per immagini e situazioni tragiche?
“Presente Storico” è stato il primo lavoro che ho presentato nel 1998 all’Arengario: in realtà non documenta solo fatti tragici, c’è infatti ad esempio il bacio di Hayez accostato alla famosa foto di Eisenstaedt che immortalò il bacio tra un marinaio al ritorno dalla guerra e un’infermiera… un gesto d’amore, quindi, seppur legato ad una precedente tragedia. Un’emozione assolutamente positiva. La nostra vita è fatta anche di momenti frivoli, o di tenerezze; ma i microcosmi delle nostre vite quotidiane rientrano in maniera armonica nel macrocosmo della grande Storia, e ne costituiscono una parte fondamentale. E questo essere dentro la Storia ci può permettere di capirla. Tutto il mio lavoro pone la sua attenzione sul valore della memoria, sul senso del tempo, oltre che sul valore dello sguardo. La memoria infatti non come “operazione nostalgia”, ma come luogo ove rivolgere lo sguardo per capire dove poter andare. Non devo essere ovviamente io a dirlo, ma il mio è un tentativo di svolgere un impegno civile: credo molto nel senso di responsabilità dell’artista e credo che ci debba assolutamente essere un’estetica, ma che quello che sia davvero essenziale sia il contenuto. Una volta, ad una mostra, chiesi a Giorgio Marconi se gli piacessero le opere di un artista. Marconi mi rispose indirettamente ed ironicamente, dicendomi “Quando io guardo un’opera voglio vedere un perché”. Trovo che abbia ragione. Ed il mio intento è esattamente questo: cerco un perché, e soprattutto cerco di stimolare la gente nella ricerca di un perché.

 

Dreamers and Dissenters in Triennale
22 Ott

Dreamers and Dissenters in Triennale

Al Triennale Design Museum dal 3 al 27 ottobre è allestita “Dreamers and Dissenters”, di Matteo Guarnaccia, in collaborazione con Giulia Pivetta. Guarnaccia, illustratore e storico del costume, è un personaggio chiave della controcultura sin dai primissimi anni settanta, quando creò “Insekten Sekte”, storica fanzine psichedelica che riprese il suo nome da un gruppo di “Provos”. E molti, a questo punto, si domanderanno: ma che cosa sono i “Provos”?

Le tavole, esposte su due grandi pareti in Triennale, ci danno questa e molte altre risposte.  Come da sottotitolo della mostra, infatti, siamo di fronte a una sorta di “Viaggio illustrato tra le mode degli anni Sessanta”. Mode e non solo: accanto infatti a mods, rockers, ragazze yè-yè e hippies vengono raccontate, descritte, illustrate anche una serie di figure che caratterizzarono il decennio pur non potendo essere definite certamente quale sorta di “corrente giovanile”. Gente che vola, come astronauti e hostess, così come gente coi piedi decisamente piantati per terra, come i feddayn, o le guardie rosse; ma, in ogni caso, interpreti di qualcosa di nuovo, di indissolubilmente legato ad un originale senso di libertà – il medesimo che caratterizzò fortemente i sixties – e di rottura con qualsiasi schema del passato.

A ben rivedere ed osservare ognuno di questi protagonisti, la sensazione è davvero che loro “fossero i primi”, e che quasi ogni nuova tendenza sia venuta dopo fosse in realtà una forma di rielaborazione quando non di riciclo, di evoluzione quando non di involuzione, di quelle descritte da Guarnaccia e dalla Pivetta.

Alcuni di loro, duri a morire, esistono ancora. Più o meno – o quasi per nulla – riveduti e corretti: come gli skinheads, o i bikers, i mods; i duri e puri del gangsta rap di oggi ritrovano le loro radici nel movimento Black Panther, mentre quelli che indugiano verso le sponde dell’ R’n’B sono discendenti diretti della gente della Motown; gli hippie non esisteranno più, almeno nominalmente e anche concettualmente, ma la loro estetica imperversa tuttora. Gli happeners e i performers di oggi sono gli stessi che nacquero nella seconda metà degli anni sessanta, soltanto un po’ meno intellettualmente onesti, meno dadaisti e più poser. Gli hipster contemporanei – niente a che vedere con quelli originali degli anni quaranta, con cui condividono solamente il nome – assomigliano davvero molto a “quelli di Carnaby Street“, pescando però qualcosa anche da altri archetipi esposti sui muri della Triennale.

Gli autori, insomma, hanno “schedato”, tramite un centinaio di tavole, tutti questi gruppi di “sognatori e creativi”, delineando una mappa di stile che attraversa il tempo, dove trovano posto moda e design, musica e politica, arte e cinema. E, come precisa la direttrice del museo Silvana Annichiarico, hanno posto l’attenzione su quei protagonisti, che, con il loro stile, idee, storie, passioni e idiosincrasie hanno abitato e “modellato” questo periodo, e non soltanto.

Il lavoro di ricerca di Giulia Pivetta è meticoloso, ed i risultati sono interessanti e divertenti. I disegni di Guarnaccia sono splendidi e come sempre psicoattivi, in quest’occasione non già in chiave allucinogena, ma senz’altro nel senso di essere fortemente evocativi. Non per caso Luca Beatrice – che contribuì tra l’altro con alcuni testi critici al libro “Anthology” del 2007, la prima monografia dedicata all’artista milanese – dice dei suoi lavori: “oltre a smuovere un bagaglio di ricordi sono dotati di una profonda onestà intellettuale. L’artista si guarda allo specchio e non vede solo se stesso ma un intero universo di segni, immagini, e colori. Come un tempo, come sempre.”

Resta una settimana di tempo per visitare Dreamers and Dissenters. Ingresso gratuito.

Intervista ad Alfredo Rapetti Mogol
28 Nov

Intervista ad Alfredo Rapetti Mogol

Al Lu.C.C.A. (Lucca Center of Contemporary Art), fino al 26 gennaio sono esposte le opere di Alfredo Rapetti Mogol. Pittore non meno che paroliere – seppur più noto per quest’ultima attività, nella quale ha seguito con grande successo le orme del padre – Rapetti, con “Re-writing lives” compie in un certo senso un’operazione di sintesi tra le forme espressive che gli sono proprie. E dipinge parole, che si lasciano leggere mentre un’appropriata colonna sonora integra l’esperienza visiva, fatte di un linguaggio “inesistente”. Ma non diremmo “inventato”: piuttosto, di un linguaggio archetipico, simbolico, tracciato invece che scritto.

Siamo andati a trovarlo sul posto. Per porgli alcune domande che potessero dirci di più in merito a questo codice espressivo decisamente interessante ed assolutamente personale, e per farci guidare tra le opere nel modo migliore possibile.

Alfredo Rapetti Mogol: La mostra è basata sul segno come forma del pensiero e come impronta della nostra traccia sulla Terra. Come gli animali lasciano le impronte, noi lasciamo la scrittura; quindi, attraverso la scrittura cerco di rappresentare i molteplici stati d’animo dell’essere umano. Si tratta di una scrittura dipinta, che perde volutamente il significato letterale poiché in esso ritrovo personalmente due inconvenienti: innanzitutto, per mia indole non voglio mai dare indicazioni definite su quelle che io possa ritenere essere le risposte alle questioni della vita, mentre credo sia ottimo che chi osserva dei simboli possa leggerne quello che vuole. Inoltre, se io usassi sempre l’italiano creerei una barriera linguistica – e quindi culturale – e, poniamo, un russo non potrebbe comunque capire cosa volessi intendere. Operando così, invece, tra noi può frapporsi soltanto una barriera di sensibilità; per cui chi dovesse avere una sensibilità affine alla mia può leggere i miei quadri. In questa mostra c’è molto delle mie ultime produzioni, le scritture sono declinate in tutti i materiali, dagli acetati, dall’inchiostro, dalle carte, dalle tele, dai cementi, dai legni, dalle coperte militari.

 

Ma quindi queste parole cosa sono?
Dipende da come le declini. In alcuni casi è come fossero delle lettere, delle affermazioni, dei testamenti; in altri, come nella mia sala dei Cieli, è come fossero dei nomi di persone a me conosciute che poi si sono allontanate, oppure di persone care che non ci sono più, che sono mancate, o di persone che incontrerò un giorno, di angeli custodi…

 

E di che lingua si tratta?
Di fatto è una lingua universale, per me, una lingua di sentimenti.

 

Quindi si tratta di segni e non di vere e proprie parole?
Esattamente. Potremmo dire che siano “forme di parole”: la forma del pensiero è di fatto Parola, da sempre. Veniva tracciato sulla roccia prima ancora che esistesse un linguaggio orale compiuto. In seguito, poi, il segno e il simbolo hanno affiancato il linguaggio comune per comunicare tra iniziati, e trattare di argomenti più profondi. D’altronde la scrittura era ritenuta una sorta di tramite tra gli dèi e la Terra. E il mio lavoro in effetti è basato sulla spiritualità.

E poi, il segno – nel senso del tratto, del risultato dell’atto dello scrivere – è qualcosa che si utilizza sempre meno. Il polso fa male, il computer rende tutto più rapido. Invece il tratto e il segno sono estremamente rivelatori: rendono una rappresentazione del nostro stato d’animo e della nostra personalità che prescinde del tutto dal contenuto di ciò che è scritto, come peraltro ben approfondito dalla grafologia. Quindi, in un’era sempre più legata alla tastiera, cerco di compiere un lavoro di rilettura e di approfondimento sul segno come rappresentazione della persona. È un recupero della memoria, della storia, della storia di tutti noi e delle origini, ma al contempo futuribile, perché non c’è temporalità in queste scritture.

 

A proposito di parole, dato che sei anche un paroliere, vorrei chiederti che differenza ci sia nel lasciare un segno con la tua parola su tela e farlo invece in un contesto musicale.
Da una parte abbiamo una parola dipinta che perde il significato letterale e da la possibilità, come la musica, di essere interpretata da tutti. Dall’altra parte abbiamo invece una parola che nella musica ha bisogno di una leggibilità immediata, automatica e quindi una parola che esprime in modo preciso una sensazione. Sono perciò di fatto l’una agli antipodi dell’altra, ma al contempo ognuna è contenuta nell’altra. E per me è molto importante poterle declinare in entrambi i modi: da una parte arrivare in modo immediato, e dall’altra avere la necessità che il fruitore si metta in ascolto.

 

Ma non credi si possa avere una libera interpretazione anche ascoltando il testo di una canzone?
Diciamo che ognuno può adattare il contesto al proprio vissuto, però di fatto il senso è quello. Nelle parole dipinte, invece, seppur ovviamente possano esserci alcuni segni, colori o forme che richiamino facilmente una sensazione comune a più persone, alla fine ognuno vede cose davvero diverse. E in molti casi, quando mi si raccontano queste visioni personali, io capisco delle cose di me che non mi erano chiare prima.

 

Qual è la forma creativa in cui ti senti più a tuo agio? Su Wikipedia sei definito paroliere e pittore. Ma se dovessi per forza sceglierne una?
Eh no, non potrei… Capisco che tu non intenda questo, ma vedi, c’è un problema, tutto italiano, un po’ provinciale e basato su un preconcetto.  Ovvero, che se fai due cose decisamente diverse in campo artistico, una delle due la devi fare da dilettante. Non è necessariamente così. Io cerco di impegnarmi allo stesso modo nel fare entrambe le cose. E utilizzo due nomi diversi: lo pseudonimo Cheope come paroliere, e Alfredo Rapetti Mogol – che è il mio nome reale, “Mogol” è stato acquisito e figura sui documenti – nella pittura. Si tratta quindi di due entità separate, anche se entrambe sono me. Sarebbe molto difficile rinunciare a una delle due cose a discapito dell’altra, ne soffrirebbe anche l’altra, anche quella salvata.

Poi è chiaro che ci sono delle differenze: quello del paroliere è un lavoro più collettivo, si lavora col compositore, coi musicisti, col cantante… mentre nella pittura si è i soli responsabili di tutto, nel bene e nel male. Inoltre, la scrittura è senz’altro terapeutica, ma non liberatoria, dato che io non canto. La gestualità della pittura mi concede invece la liberazione.

 

A proposito di origini, hai padre e nonno paterno autori di testi, e il nonno materno che lavorava in un contesto artistico…
Sì, lui era presidente delle Arti Grafiche a Milano e ha sempre lavorato facendo i cataloghi di arte. E anche mia madre dipingeva.

 

E tu ti sei preso tutto?
Sì, non mi sono fatto mancare niente. Ma è venuto tutto naturalmente. Ho cominciato a fare il pittore, poi ho cominciato a scrivere e a pubblicare nel 1983… ormai sono trent’anni, all’inizio mi sono impegnato molto con la scrittura, cosa che bisogna sempre fare in una prima fase per cercare di darsi un’identità e avere una credibilità. In seguito mi sono trovato ad avere molto tempo libero, a poter scegliere, e allora è ritornato fuori prepotentemente il me stesso pittore. In quella fase ho cominciato a lavorare sul linguaggio, mentre in precedenza dipingevo di tutto.

 

E invece la parte legata alla musica come l’hai vissuta da ragazzino?
Certo non troppo facilmente, perché sai, misurarsi con le leggende non è possibile. Fortunatamente, però, alla fine non mi ci sono misurato, ma inconsciamente ed incoscientemente mi sono buttato. E fortunatamente ho fatto un mio percorso, che mi ha portato anche oltre quello che immaginavo… Dal Grammy a molte altre cose che non avrei mai pensato nella vita. Ho avuto tantissimo dalla musica. Ma anche nella pittura ho grandissime soddisfazioni e gratificazioni.

 

A proposito di musica, e tornando a questa mostra, la “colonna sonora” presente è fondamentale o lo spettatore potrebbe essere di fronte a una tua opera e vivere una sensazione, un’emozione?
L’opera, dal mio punto di vista, deve assolutamente riuscire a trasmettere senza ausilio di cose supplementari, senza spiegazioni né supporti. Deve avere una forza primigenia, su questo non c’è dubbio. Questa è la prima volta che faccio un esperimento con la musica: ho lavorato per un anno con questi ragazzi diplomati al Conservatorio di Milano e a quello di Roma. Innanzitutto mi faceva piacere dargli visibilità in un’esposizione così importante; però ho posto una condizione, ovvero quella di fare qualcosa che aiutasse realmente ad amplificare la percezione del lavoro. E devo dire che alla fine ce l’abbiamo fatta, stando a quanto mi è stato riferito da tante persone e anche a quanto ho osservato io stesso.

Il discorso non vale solo per la musica: quello che stai sentendo in questa sala è un Padre Nostro in sanscrito. Un mantra che viene ripetuto, che amplifica questa scrittura. Anche la scrittura comincia a parlare, la vedi in un altro modo: si comincia in qualche modo a muovere, ed è molto forte, molto ipnotica. C’è una parte di assoluto respiro, rilassamento e anche trasmigrazione verso l’alto, quasi levitazione in questa sala; è una sala ipnotica.

 

Intervista a Blue & Joy
11 Dic

Intervista a Blue & Joy

Fabio La Fauci e Daniele Sigalot sono gli ideatori dei personaggi di Blue & Joy, due pupazzi che incarnano pienamente il proprio nome: Blue ha un aspetto malinconico, Joy sembra pieno di vita e di felicità. Questo nome di fatto identifica da tempo gli artisti stessi, anche se nelle ultime mostre la presenza dei due personaggi si è fatta sempre più rara. Fabio e Daniele arrivano direttamente dalla loro ultima mostra, ancora in corso a Colonia (Germania), per esporre alla Triennale di Milano. Dal 10 dicembre e fino al 12 gennaio 2014 è allestita la loro personale, “Dear Design + Even the Wind Gets Lost”. Ovvero, cinque enormi missive scritte da importanti figure del design italiano aventi per destinatario il Design stesso, oltre all’installazione di trecento aeroplanini “di carta” (fatti di alluminio) multicolori. I due, ormai berlinesi d’adozione, celebrano così il rientro nella “loro” città, quella che li ha fatti incontrare e che li ha visti iniziare la loro collaborazione. Siamo andati ad incontrarli per fargli qualche domanda. Il tentativo di essere seri è naufragato quasi subito, per sfociare in un’intervista – per dirla come direbbero loro – a tratti superficialmente profonda. Ma proprio per questo particolarmente piacevole e interessante, oltre che ovviamente divertente.

Daniele e Fabio arrivano, ci sediamo al bar della Triennale, e mentre io prendo un caffè loro ordinano due calici di nebbiolo.

 

Nella vostra precedente mostra avevate dichiarato che chi ne capisse il titolo avrebbe capito tutto. Il titolo era talmente intriso di negazioni, contronegazioni e sensi multipli da permettere infinite chiavi di lettura. In questo caso, invece, il titolo è chiaro: Anche il vento si perde. Chiare le parole, ma mi piacerebbe capire cosa significhi per voi.
Daniele: (rivolto a Fabio): te l’ho detto, facciamo un titolo più complicato, eh eh eh. Però è molto bella la domanda: ecco, questa è la mia risposta.

 

Grazie!
D.: No vabbeh… “Anche il Vento si Perde”… mah. È comunque un’astrazione: come fa a perdersi il vento se non riusciamo neanche a immaginarlo? Noi cerchiamo sempre di essere vaghi, in modo da… però ecco, poi invece a volte uno si ritrova di fronte a giornaliste come te, che studiano davvero e che ti fanno domande pertinenti, e resta spiazzato. Però giuro che per la prossima mostra facciamo una cosa tipo rebus. Il prossimo titolo sarà enigmatico, su questo ci scusiamo.

 

In questa mostra non vedo le vostre pillole, e mi dispiace. Ma voglio chiedervelo lo stesso: per dirla con voi, nel vostro mosaico di pillole è importante l’essenza, ovvero il possibile contenuto delle pillole, o l’apparenza, cioè come esse vengano decontestualizzate e disposte?
D: Ma noi non siamo pronti a domande così profonde… In realtà l’ultimo lavoro che abbiamo fatto con le pillole risale allo scorso gennaio.

F: Però poi, sempre con la tecnica del mosaico abbiamo presentato ad un’altra mostra due rosoni: uno fatto di caramelle e l’altro di pillole.

D: Quello fatto di caramelle si intitolava: “Annuntio Vobis Gaudium Magnum”, che è la formula utilizzata dal cardinale più anziano per annunciare che è stato eletto un papa. Perché c’era stato questo boom a livello comunicativo del nuovo papa… il marketing ecclesiastico… eh sì, perché Papa Francesco piace talmente tanto a tutti, perché in realtà sembra davvero un bravo prete. Però dietro ha il governo più longevo della storia del pianeta. Quindi, come le caramelle piacciono a tutti, ci sembrava di poterle associare in qualche modo al nuovo pontefice. Analogamente, avevamo pensato che il papa precedente non piaceva a nessuno: però lavorava per la stessa azienda. E quindi l’altro rosone l’abbiamo fatto solo con medicinali, visto che tra l’altro è un papa che si è dimesso dicendo di star male… diceva. Poi, qualcuno ha male intrpretato il significato del nostro lavoro, pensando che fosse un tributo al nuovo papa. Invece è esattamente il contrario. Ma a volte è anche interessante che ognuno legga nelle nostre opere ciò che vuole. Noi pensavamo fosse evidente il senso critico del lavoro.

 

Chiara Guidi sottolinea l’importanza del vostro approccio con la dimensione del sogno. Qual è questo approccio?
D: Dormire! (Risate)
Questa chiudila qua perché è perfetta. Io sogno di dormire. (I ragazzi hanno allestito tre mostre in poco tempo, sono un po’ stanchi e mi fanno notare che devono ancora attaccare il manifesto della mostra salendo sul trabattello – e lo fanno proprio loro fisicamente –  entro l’apertura di stasera… non sanno se ce la faranno, NDR)

 

Avete compiuto la scelta di rinunciare al lavoro di creativi pubblicitari per dedicarvi all’arte. Quale è stata l’influenza della vostra ex professione nel vostro modo di esprimervi?
F: Innanzitutto, e credo di poter parlare a nome di entrambi, io me ne pento! Perché avevamo un futuro sicuro, lavoravamo a Londra, avevamo pure una paga tosta e quindi, insomma, un po’ mi manca la pubblicità. Con una punta di serietà invece, devo dirti che sicuramente quel mestiere ci ha insegnato a lavorare nel contesto di un team creativo, in particolare in coppia. E tuttora, una volta creata l’idea, si riesce davvero a realizzarla assieme al meglio, esattamente come si faceva in pubblicità. Come annuncio pubblico, tra parentesi, siamo disponibili come freelance dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 18.

 

Saranno gli effetti del nebbiolo…?
D: Sottoscrivo pienamente che è stata una gigantesca cazzata, ora è troppo tardi per rientrarci, pazienza.

F: perché ormai siamo dei quarantenni senza esperienza, siamo i nuovi poveri di fatto. (Risate)

 

Allora tra le vostre letterine ci potrebbe stare un Dear Advertisement, improvvisatelo:
D+F: Cara pubblicità, scusaci: è stato un errore, e non è vero che la minestra riscaldata è meno buona. Chiamaci! Noi ti pensiamo sempre.

 

Secondo voi il direttore di ArtsLife mi licenzierà per aver fatto un’intervista poco seria?
D+F: Ma no, dai… e comunque, ora hai due nuovi amici. Poi non è detto che essere simpatici voglia dire essere superficiali: noi siamo profondissimi. Siamo superficialmente profondi.

 

Bene, mi sento rasserenata. Tornando a noi… A proposito di influenze, i Paper Planes sono un chiaro omaggio ad Alighiero Boetti. La sua influenza nella vostra opera si vede però anche altrove, perfino nelle vostre lettere, che quantomento nell’intenzione ricordano le frasi e i motti scritti e dipinti da lui; oppure nell’utilizzo di materiali inconsueti come si trattasse di pixel cromatici. Quali sono le altre vostre importanti influenze?
D: In realtà questo è un po’ un equivoco, nel senso che a Boetti abbiamo reso omaggio con una installazione di areoplanini – oltre a dei dipinti – in una nostra precedente esposizione, realizzata dopo aver visto una sua mostra che ci aveva particolarmente impressionati: per cui, capirai che ciò che dici è per noi molto lusinghiero. Riguardo al resto, in realtà non saprei cosa risponderti, perché dipende molto dai momenti, dai periodi, e anche noi come i nostri aeroplanini ci smarriamo, seppure in maniera bella, e le influenze possono essere davvero tante. Non c’è una stella polare nel buio.

 

Una domanda scontata, ma importante per capire bene. Cos’è Dear Design?
D: Questa è una domanda che dovremmo sicuramente condividere con Lorenzo Palmeri che ne è il curatore. Noi siamo qui grazie a lui, perché questa è una sua idea. Dopo aver letto le nostre lettere – esposte in mostre precedenti – dedicate al Destino, al Successo, e via dicendo, è rimasto incuriosito e ci ha suggerito di fare una lettera dedicata al Design. Solamente che noi riguardo al design siamo un po’ sprovvisti di background, per cui – ritenendoci impreparati – abbiamo chiesto aiuto ai migliori designer presenti in Italia. Alberto Alessi, Mario Bellini, Michele De Lucchi, Alessandro Mendini e Isao Hosoe sono quindi stati coinvolti, ed è nata questa collaborazione: noi abbiamo prestato il nostro media, ovvero il supporto di alluminio, e loro hanno scritto le lettere.

 

Dite la verità… sicuramente volete bene a Blue and Joy, ma è una rapporto ormai logorante, e non vedete l’ora di liberarvene. Pensate di riuscirci? E come?
F: Diciamo che anche quest’anno abbiamo fatto cose dove Blue & Joy c’erano, ma esclusivamente sotto forma di due sculture che “facevano presenza” all’interno dell’esposizione. Di fatto, a livello iconografico e stilistico erano lontani dal loro mondo, e rimanevano semplicemente lì fermi a guardare.

D: Quindi pensiamo di avere iniziato ad emanciparci da un linguaggio che avevamo intrapreso come sfogo nei confronti della pubblicità: poiché in pubblicità la tua creatività viene costantemente lesa e maltrattata, avevamo inventato questi personaggi di un fumetto ai quali andava tutto male. Era un po’ come osannare la sfiga essendo costretti invece, allo stesso tempo, a vendere la fortuna e la gloria ogni giorno e con qualunque marchio.

F: E poi comunque negli anni Blue and Joy sono diventati grandi, sono cresciuti ed è ora che si trovino un lavoro. Ma andassero a lavorare in pubblicità!

 

Piero Fornasetti, 100 anni di follia pratica
16 Dic

Piero Fornasetti, 100 anni di follia pratica

L’undici novembre scorso cadeva il centenario dalla nascita di una  figura fondamentale nella storia del design italiano. Che, in effetti, pare improprio definire “designer”. Il designer ha al centro della sua azione il progetto, che spesso svolge con rigore razionalista, per rendere all’oggetto la sua funzione nella propria essenzialità. Oppure, che reinventa, adattando la forma di un oggetto, cambiandone struttura e proporzioni per farlo a volte assomigliare a qualcosa: una sedia con la forma di una mano; un appendiabiti con la forma di un corpo; uno spremiagrumi che assomiglia ad un missile.

Piero Fornasetti, invece – oltre ad essere uno stampatore di professione – era un decoratore. Generalmente, lui decorava oggetti dalle forme comuni con i suoi disegni. E per questo motivo pagò, per almeno un ventennio, lo scotto di un ostracismo dalla scena del design italiano, che ripudiava la “frivolezza” dei decori, in particolare da parte della Triennale stessa.

Ben venga, quindi, questa mostra, con cui il museo del Design paga il giusto pegno.

Allestita alla Triennale – Museo del Design di Milano, dal 13 novembre al 9 febbraio 2014, la mostra “Piero Fornasetti 100 anni di follia pratica“, è curata da Barnaba Fornasetti, figlio dell’artista e prosecutore della sua opera. Barnaba continua infatti a produrre oggetti utilizzando le medesime tecniche del padre, e riutilizzando i suoi disegni originali, sia quelli editi – che spesso vengono rielaborati dal figlio nelle sue “Reinvenzioni” – che svariati inediti.

Si tratta di una grande mostra, in cui vengono esposti un migliaio dei tredicimila oggetti prodotti da Fornasetti nel corso della sua vita. Dai suoi foulard – coi quali tentò di esordire sin dagli anni trenta proprio qui in Triennale, venendo però escluso – alle sue collaborazioni con Giò Ponti, che era rimasto colpito dal suo stile e con cui lavorò a progetti che andavano dai “lunari” a tiratura limitata fino all’arredamento di case, dalla decorazione di interni di negozi a quella di transatlantici, dai lavori su oggetti comuni quali posaceneri e soprattutto vassoi (di cui si definisce “inventore”) ai suoi paraventi, sedie e tavoli, ed infine alla sua opera pittorica.

Fornasetti dichiarava di dovere molto al cattivo gusto della sua famiglia. La sua ossessione per la decorazione era nata da questo come una sorta di reazione, anche se paradossalmente – a cavallo tra gli anni sessanta e soprattutto i settanta – verrà additato come uno dei più classici esempi del kitsch. Eppure le decorazioni di Fornasetti, seppur rigogliose – nel nome di una sorta di lotta contro l’horror vacui ed il grigio degli oggetti e del mondo tutto – erano caratterizzate da un rigore notevole, e l’approccio era in realtà prevalentemente minimale: la ripetizione di elementi coerenti, semplici e dalle linee essenziali rende le sue opere allo stesso tempo ricche e discrete. Un approccio da esteta, non certo da manierista.

Fornasetti, in un felice paragone, accosta la decorazione alla musica: qualcosa di inessenziale, almeno apparentemente, ma fondamentale per abbellire il mondo ed arricchire la vita. E nell’affermare questo, sottolinea anche l’importanza del Disegno: senza il disegno non si può progettare nulla. Chi non sa disegnare, non può essere in grado di progettare oggetti, nemmeno quelli utili, nemmeno con un approccio totalmente razionale. Il disegno è fondamentale per l’artista come per il decoratore, come per l’architetto e per l’ingegnere, per il designer, perfino per il matematico e per il fisico.

Nel nome dell’importanza data alla sua ricerca e ai suoi risultati, Fornasetti compiva atti che i feticisti del Libro definirebbero sacrileghi: era solito raccogliere in innumerevoli faldoni ritagli – tratti indifferentemente da riviste come da antichi libri rari – di immagini che potessero essere funzionali al suo lavoro. La sua attenzione era verso l’Immagine, non verso l’oggetto.

E fu proprio da un’immagine presa da un libro della fine dell’ottocento, raffigurante il volto di Lina Cavalieri – soprano, attrice, musa di D’Annunzio (che le dedicò Il Piacere e che la definì “la massima testimonianza di Venere in Terra) – che l’Artista prese spunto per un’infinità delle sue serigrafie. Suo è il volto che appare su innumerevoli vasi, teiere, piatti, e che fu scelto per la stessa ragione per cui sceglieva molte delle sue immagini archetipiche: per la loro bellezza classica e formale.

La collezione di immagini “Tema e Variazioni” comprende circa 350 varianti di questo unico motivo. Lo si ritrova su tutti i generi di oggetti Fornasetti, tra cui le reinvenzioni del figlio Barnaba. Un’intera sala dell’esposizione è dedicata proprio alle “Variazioni” del volto su centinaia di piatti bianchi in ceramica.

Questo aspetto – assieme a tanti altri – fa di Fornasetti un importante precursore della Pop Art. Lo fa la ripetizione di un elemento popolare (il volto di una diva) in molteplici versioni ognuna lievemente variata rispetto alle altre, come anche l’utilizzo di tecniche che saranno poi proprie di un Warhol come di un Roy Liechtenstein. E ciò, unito all’approccio visionario e surrealista dell’artista, lo rende assolutamente moderno: non stupisce vedere i suoi oggetti in vendita nel bookshop ipertrendy di 10CorsoComo, né il fatto che venga acclamato dagli appassionati di arte lowbrow e pop surrealista come una sorta di profeta.

 

Tommaso Ottieri, iperrealismo alla cera d'api
22 Gen

Tommaso Ottieri, iperrealismo alla cera d'api

Come un pittore seicentesco, Tommaso Ottieri pone al centro della sua opera la messa in scena. Nel senso letterale dell'espressione, ovvero la giustapposizione entro una scena – che è il reale soggetto – di una serie di figure, che fungono da attori, o da comparse, per rendere la scena stessa compiuta.

La particolare caratteristica di questi figuranti, però, è che non si tratta di esseri umani: la figura umana, centrale nei quadri di Ottieri, si fa notare soprattutto per la sua assenza.
Quello che in sua vece è presente sono le sue vestigia. Gli edifici, le stratificazioni storiche dei paesaggi operate da umanità variegate nel corso del tempo ma coerentemente (ed al contempo incoerentemente) presenti in uno stesso contesto. Racconta, Ottieri, di quando al suo debutto il pubblico restò molto colpito dai paesaggi napoletani da lui ritratti, che apparivano così fantasiosi, visionari, e decisamente immaginari; si trattava invece di raffigurazioni quasi esatte della collina del Vomero.
Le fantasie non erano quelle del pittore, ma quelle del tessuto storico stesso di una città come Napoli, in cui - di dominazione in dominazione nei tempi passati, e di palazzinaro in palazzinaro in quelli recentissimi – si è venuto man mano a creare uno scenario urbanistico al contempo ricco e contorto. Che, se osservato da un diverso punto di vista, e dalla distanza che intercorre tra un quadro ed il suo osservatore, appare surreale; ma si tratta, diremmo piuttosto, di una visione iperreale; anzi, addirittura oltre l'iperreale.
E lo stesso discorso vale per i paesaggi veramente immaginati in cui Ottieri, spostando da una città all'altra interi edifici e riaccostandoli, e collocandone accanto di completamente nuovi, raffigura degli scenari inesistenti in cui però – ancora – gli esseri umani, seppur non ritratti, sono presenti: in questi suoi impianti urbani stravolti restano l'effetto della luce e del buio, del calore e del gelo, della solitudine o dell'assembramento, che sono i medesimi che rimangono nella rappresentazione di un corpo umano.

Più di recente, Ottieri ha lavorato sugli interni di chiese, di edifici barocchi e di teatri restando comunque fedele al suo stile. In cui si ravvisa, nelle pennellate, la dichiarata influenza di uno Yan Pei-Ming, ma che è caratterizzato da un aspetto che rende Tommaso Ottieri una figura probabilmente unica a livello internazionale. Ovvero, la maestria con cui utilizza l'antica arte dell'encausto. Si tratta di una tecnica estremamente complessa, in cui i pigmenti vengono lavorati con una ricetta a base di cera d'api. Che necessita però di notevoli sacrifici per essere applicata: il colore deve costantemente essere scaldato e deve essere steso in posizione orizzontale, e quindi il pittore – tra pennelli in una mano e asciugacapelli nell'altra, fornelletti e bagnomaria, impalcature e posizioni che definire scomode è dir poco – fatica parecchio per realizzare la propria opera.
Il vantaggio, però, è notevole. I quadri dipinti ad encausto hanno una durata virtualmente illimitata: i pigmenti infatti, protetti da questa particolare formula, non risentono dell'effetto del tempo e degli agenti atmosferici. E risultano, anche dopo migliaia di anni, uguali a come erano stati posati dal pittore. Ottieri merita sicuramente un posto tra i grandi della pittura italiana contemporanea. E qualora la sua arte dovesse giungere ad eternarlo, l'utilizzo dell'encausto garantirà – anche da un punto di vista puramente materico – l'eternità alla sua opera.

Matteo Procaccioli, metafisica dell'abbandono
29 Gen

Matteo Procaccioli, metafisica dell'abbandono

La fotografia di Matteo Procaccioli nasce come conseguenza a una duplice esigenza: da un lato, il bisogno di esorcizzare la paura dell'abbandono; dall'altro, l'intenzione di cogliere nei segni delle architetture e delle città il "tra", la traccia del passaggio tra tradizione e contemporaneità. Là, dove la vita quotidiana scorre spesso inconsapevole della storia e delle culture che l'hanno preceduta.

A questo inevitabile risultato Procaccioli è arrivato dopo aver sperimentato diversi percorsi. Lui, che lavora nel fashion marketing, in parte per quelli che ritiene essere i limiti posti dall'obiettivo (nel senso di fine ultimo) degli scatti della fotografia di moda ed in parte come reazione naturale alla chiassosità ed alla connaturata mutevolezza del suo ambiente di lavoro, cerca conforto – ma soprattutto risposte – ritraendo paesaggi vuoti, e riempiti solamente da strutture architettoniche. Che sono altrettanto vuote, o per meglio dire prive di ogni riferimento a figure umane o alla loro presenza, ma che nel loro monumentale silenzio rendono tale presenza forte ed implicita.

Procaccioli ha iniziato fotografando strutture abbandonate. Relitti di un mondo passato, che è stato vissuto, ma di cui non coglie il quasi ovvio aspetto malinconico: ai suoi occhi, questi soggetti garantiscono la possibilità di raccontarsi ipotesi, di ricostruire episodi o anche epopee, senza che però nulla di palese possa richiamare ad una trama specifica o a una storia umana: ogni risposta è lasciata alla suggestione evocata dallo scatto e dalla sua elaborazione. Un'elaborazione che viene operata coniugando tecniche tradizionali e innovative, dapprima “dipingendo” digitalmente lo scatto, ed in seguito – in fase di stampa – lavorando sulla matericità della fotografia. Il risultato, se dapprima può apparire di gusto retrò, tende invece piuttosto a dare alle opere un aspetto atemporale, quasi metafisico, contribuendo di fatto a svincolare ulteriormente i soggetti da canoni “umani” di osservazione, quali quelli che debbono necessariamente sottostare ai vincoli dello spazio e del tempo. E lo stesso effetto si ravviserà in seguito, quando il fotografo dedicherà la sua attenzione a skyline, edifici, paesaggi urbani tuttora funzionali e vivi, ma svuotati – nei suoi scatti – di ogni riferimento palese alla vita ed ai suoi limiti, per cogliere sempre e solo l'essenza della struttura, per percepire l'assenza che era implicita negli edifici relitti.

Da questo suo approccio iniziale, in cui vi era una ricerca di verticalità con un punto di ripresa dal basso, Procaccioli perviene – nel suo ultimo progetto, Microcities – ad un cambio di visuale necessario per una riconsiderazione del rapporto tra le strutture e lo spazio: intere città vengono ora riprese dall'alto, a volo di uccello. Ponendo in evidenza la loro collocazione nel contesto delle forme naturali circostanti, e rendendole in questo modo apparentemente piccole, quasi un contraltare alla maestosità della visuale dal basso. Per ricordare che l'assenza della “natura” nelle foto di Procaccioli ne implica comunque la presenza, e ne sottointende la grandiosità.

Chandra Fanti, l'eterna ricerca della verità
17 Feb

Chandra Fanti, l'eterna ricerca della verità

Chandra Fanti, ternana di nascita e berlinese di rinascita, inizia lavorando sul legno. Sul quale in effetti non dipinge, ma opera delle incisioni, nel tentativo di oltrepassare l'involucro esterno, alla ricerca della profondità. Nella prima fase del suo percorso artistico usa sostanzialmente il supporto pittorico come una seconda pelle, e la pittura/incisione come una sorta di atto autolesivo tramite il quale poter recuperare il contatto con la realtà e la distinzione tra interno ed esterno.

Già da allora la sua opera è volta alla ricerca della conoscenza del sé, com'è tuttora: ma in seguito, e fino ad oggi, a quella iniziale fase di scarificazione ha man mano sostituito un approfondimento ulteriore. Per la piena conoscenza di sé stessi, infatti, occorre andare oltre al derma, e oltre ancora. Oltre la carne, nel profondo. Per arrivare, finalmente, al reale obiettivo dell'artista: la verità oltre il sé, l'annullamento dell'esperienza personale.

I quadri di Chandra Fanti raffigurano delle stanze mentali. Apparentemente oniriche, di certo fortemente simboliche, prendono spunto dalle sue esperienze: in esse, l'artista cerca di ricostruire sensazioni basate in parte sui suoi ricordi, ma svolti in chiave non autobiografica: nella sua ricerca di risposte, di verità, fa appello alle proprie rimembranze, ma lo fa rapportandole ad un inconscio collettivo. Utilizza i ricordi come strumento di analisi, certa che - nonostante si tenda a cercare la verità al di fuori di noi stessi- lo strumento migliore, che tutti abbiamo a portata di mano, sia di fatto la nostra essenza; compiendo un percorso che, dalle sensazioni e dalle esperienze, passi oltre, attraverso l'inconscio e fino all'ancestrale. Un dialogo interiore – svolto in spazi non fisici, ma mentali - che la accomuna, come lei stessa sottolinea, con la Louise Bourgeois di Cells.

In questo suo lavoro sulla memoria, che ricorda in parte quello compiuto da Saudek in fotografia, sono centrali i riferimenti ai fiumi dell'Ade; inteso non come “inferno” nel senso punitivo, ma come luogo profondo e metafisico da cui parte la rigenerazione stessa. Questi elementi emergono tutti in particolare nella serie delle stanze del Lete:  il Lete è fiume dell'oblio, ove si immergevano gli umani per dimenticare ogni esperienza di vita, per poi rinascere. Al contrario, l'assenza dell'oblio è la verità: in greco, “lete” sta per oblio, e “aletheia”, ovvero verità, significa proprio assenza di oblio. L'artista annulla lo spazio ed il tempo nelle sue stanze, e anche l'esperienza personale perde i suoi limiti e diventa collettiva, per confrontarsi con l'oblio personale, alla ricerca della verità; e nel farlo, eliminando ogni coordinata, annulla i limiti della propria esperienza, per trovare una verità universale.

Elemento ricorrente nei quadri della Fanti è il cavallo: come spiega la pittrice, esso rappresenta per lei quello che la mitologia mesoamericana definisce un nahual, ovvero uno spirito guardiano ed un alleato, che aiuta a capirsi. E che l'artista utilizza come il cavallo di Troia di Ulisse, per riuscire meglio nell'impresa di oltrepassare le proprie barriere e penetrare nel proprio profondo. Dice lei stessa: “Il cavallo è ipersensibile, ha canali aperti che lo aiutano a capire le sensazioni di chi gli è vicino. È come se non avesse pelle, avverte l'animo delle persone e i cambiamenti nell'aria. Come l'artista.