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SisalPay per l’arte e la cultura. Il primo incontro al Museo del Novecento con Vittorio Sgarbi
15 Set

SisalPay per l’arte e la cultura. Il primo incontro al Museo del Novecento con Vittorio Sgarbi

SisalPay si fa promotrice di un’iniziativa d’eccezione, sostenendo, al Museo del Novecento di Milano, l’arrivo delle due ultime collezioni Un Museo Ideale. Ospiti d’eccezione nelle Collezioni del Novecento dal Futurismo al Contemporaneo” e “Nuovi Arrivi. Opere della donazione Bianca e Mario Bertolini”. Un impegno che sarà corollato da tre serate con guide di grande prestigio: Vittorio Sgarbi, Luca Beatrice e Philippe Daverio, la cui serata il prossimo 22 settembre sarà per tutta la cittadinanza. L’iniziativa si inserisce nel programma espositivo che il Museo del Novecento ha ideato in occasione di Expo 2015.

I capolavori donati da Mario Bertolini arricchiscono il patrimonio del museo di oltre 600 opere realizzate dai protagonisti dell’arte italiana e internazionale del secolo scorso, e la mostra “Nuovi Arrivi” ricostruisce, in una selezione di circa cento opere, i capitoli fondamentali della raccolta, con opere che da Balla portano a Warhol e Schifano, all’arte concettuale americana ed europea, a Christo, Acconci, LeWitt, ai neoespressionisti tedeschi e austriaci, per concludere il percorso con una grande Rosa Bianca di Kounellis, che costituisce così un importante contraltare alla Rosa Nera già presente nella collezione permanente del museo.

 

 

“Un Museo Ideale”, invece, arricchisce le collezioni del museo con opere provenienti dalle istituzioni museali italiane, a costituire insieme alle opere permanenti un percorso comune che racconti il patrimonio artistico italiano del secolo scorso. Un invito esteso al pubblico sui Social Network con l’Instagram Challenge #MuseoIdeale, una call dedicata a tutti gli appassionati di arte e fotografia, supportata da un sito (www.museoideale.it) che ospita la raccolta delle immagini condivise dalla community, trasformando “Un Museo Ideale” in un museo aperto a tutti. Maurizio Santacroce, Direttore Payments and Services  di Sisal Group, ci dice:

“Da alcuni anni nell’ambito del nostro programma di responsabilità sociale d’impresa stiamo investendo per sostenere l’arte, la cultura e il talento. Quest’anno ci ha molto colpito l’iniziativa di questi percorsi espositivi del Museo del Novecento in concomitanza con Expo: ci è sembrata una notevole valorizzazione della cultura italiana, ed essendo la nostra una realtà fortemente italiana abbiamo aderito al progetto, che pensiamo ci abbia permesso di dare un contributo particolare anche alla città di Milano.

 

Crediamo molto nel sostegno all’arte. Personalmente, sono molto contento di quanto fatto finora in questo contesto, che ci ha consentito di accompagnare la città per sei mesi e che ci ha portato a vivere serate come questa curata da Vittorio Sgarbi, che ha un sapore particolare e da grande soddisfazione.”

 

 

 

Nell’occasione della prima serata guidata abbiamo rivolto alcune domande a Vittorio Sgarbi.

Come spesso capita, grazie a privati che peraltro si occupano di tutt’altro, è possibile realizzare iniziative come questa. Le istituzioni tendono ad essere carenti, questo non è un bene. Ci potrà essere un’inversione di tendenza?

SisalPay è un Istituto di Pagamento privato, parte di un grande Gruppo (la Sisal) concessionario dello Stato, che produce dei profitti attraverso dei servizi di pagamento, e che ha decide di indirizzare parte dei propri investimenti all’attività di restauro e promozione di mostre. Chiaramente, ricevendo tramite un gesto apprezzabile com’è quello della promozione della cultura, il vantaggio di far ulteriormente conoscere la propria esistenza ed alcuni aspetti della propria attività. Io, per esempio, non sapevo che Sisalpay consente di pagare bollette, tasse e multe in tabaccheria o negozio. Nell’azione di sponsorizzazione, quindi, c’è anche un’implicita promozione dell’istituto.

 

 

E le istituzioni pubbliche?

Le istituzioni pubbliche hanno un problema più grave. Il taglio della spesa pubblica non dovrebbe voler dire solo spendere di meno, ma spendere meglio: indirizzando meglio la spesa si potrebbe spendere la metà di quello che effettivamente spende l’Amministrazione, con maggiori risultati. Il problema del Pubblico è perciò la dispersione di energie in spese senza senso. Molti interventi pubblici, a partire dall’esempio della stessa Regione Lombardia, che aveva una sede perfetta al Pirellone ma ha voluto ugualmente realizzare la propria Nuova Sede, si concretizzano in soldi che vengono spesi per una iniziativa di lavori nominalmente pubblici che, però, non hanno alcun interesse per il pubblico. Abbiamo una spesa pubblica eccessiva per obiettivi sbagliati. Non serve spendere un po’ di meno dappertutto, ma occorre spendere rinunciando ad opere inutili, indirizzando il denaro laddove è utile, compresa ovviamente la promozione della cultura.

Altrettanto notevole è l’importanza della presenza in Italia di persone come i Bertolini, che decidono di donare al museo – e quindi a tutti – collezioni di importanza rilevante come questa..

Quella dei Bertolini è una donazione molto di nicchia che ha un interesse generale più legato alla specialità e all’attenzione per l’arte contemporanea. È una collezione sinceramente amatoriale, quasi un archivio, perché hanno comperato soprattutto opere su carta. La donazione è una delle anime viventi dei musei: i musei vivono di donazioni e molto spesso sono costitutiti da collezioni private. Il fatto che oggi si continui a fare quello che è sempre stato fatto nel passato, come per esempio per l’Accademia Carrara o per il Poldi Pezzoli, è la prova del fatto che esiste un Privato virtuoso il cui collezionismo non è legato al danaro, ma a una concezione di condivisione. Questo porta naturalmente il privato a donare quanto raccolto spendendo soldi propri per permettere alla gente di visitare la propria collezione e condividere la propria visione dell’arte.

 

 

I Bertolini sono stati una famiglia legata all’arte ma anche al proprio territorio: Araldo, il padre di Mario Bertolini, fu ispettore onorario delle Belle arti e direttore del Museo camuno. E infatti, inizialmente, la Fondazione aveva cercato di collocare le opere in Valcamonica, ma non è stato trovato un posto adeguato e la collezione è arrivata a Milano. Cosa pensa di questo fatto?

Penso che sarebbe stato un errore. In Valcamonica un collezionismo così sofisticato – e anche snob, perché porta con sé una serie di questioni legate non alla comune idea di arte, ma a un’idea di arte legata alla sensibilità del nostro tempo – sarebbe probabilmente rimasto confinato in una sorta di cimitero, con le opere appese ai muri senza che nessuno le vedesse. Invece, non c’è destinazione più pertinente del museo del Novecento a Milano: è un’ istituzione universale nella città giusta. Questa collezione in terra camuna avrebbe costituito una bizzarria, una curiosità che pure era legata a persone sensibili, qui diventa organica a una visione. È stata una fortuna che l’abbiano rifiutata in Valcamonica, perchè sarebbe rimasta in qualche modo inevasa, l’avrebbero visitata solo pochissimi bizzarri curiosi. Al museo del Novecento, invece, chi viene a vederla la trova nel contesto giusto, insieme alla collezione di Claudia Gian Ferrari, nell’ambito del mondo a cui quelle opere appartengono.

 

 

Parlando del “Museo Ideale”, qual è il suo punto di vista su questo genere di iniziativa? Le sembra positiva e sensata? Magari auspicabile anche in situazioni diverse legate ad altri musei?

È una giusta iniziativa: portare quadri di un museo in un altro museo è una pratica comune, e qui l’hanno realizzata addirittura moltiplicandola per dieci.

Che una sola opera venga da un’altro museo è cosa giusta; che in un museo ne vengano dieci da altrettanti musei è cosa ancora più giusta; che poi queste dieci opere siano contestuali alle diverse aree del museo, per cui tu hai un dipinto metafisico o un dipinto di Casorati nel luogo dove ci sono i quadri degli stessi autori e degli stessi movimenti dentro il museo, è veramente notevole. Credo però che il titolo possa creare un equivoco: si pensa ad un “museo ideale” come ad un qualcosa che non c’è, qualcosa di virtuale, mentre questa è una mostra assolutamente reale, che semplicemente configura l’ipotesi di un museo stabilmente realizzabile.

 

 

 

 

Lectio magistralis di Philippe Daverio al Museo del Novecento. Intervista
01 Ott

Lectio magistralis di Philippe Daverio al Museo del Novecento. Intervista

Nuovo appuntamento a cura di Sisalpay (clicca qui per il precedente) al Museo del Novecento, corollato dalla lectio magistralis di Philippe Daverio, direttamente dal balcone del museo che affaccia sulla piazza del Duomo.

Trasmessa anche da un maxi schermo allestito per l’occasione, la lezione – dal titolo di “Grandezza e miserie della vita novecentesca” – è stata seguita da 3.000 persone che hanno poi potuto accedere al museo, aperto eccezionalmente per la serata.

L’iniziativa è stata un successo, oltre 2.000 persone hanno utilizzato l’ingresso notturno gratuito per visitare il Museo.

 

 

Abbiamo rivolto a Philippe Daverio alcune domande.

Il titolo della mostra che è stata fatta qui al museo del 900 mi ha subito evocato i suoi libri, in particolare il “Museo Immaginato”. Quanto si avvicina alla sua idea?

Il tentativo di mettere insieme degli elementi per raccontare una storia è fondamentale. Un museo deve raccontare una storia, e purtroppo molto spesso i musei non ci riescono. Oppure raccontano storie che capiscono solo i curatori, che relazionandosi costantemente con quelle opere riescono ovviamente ad inventare una storia, ma il fatto che il pubblico che interviene sia in grado di percepirla è tutt’altra cosa. Tutto il lavoro della museologia sta in questo: riuscire a trasformare il materiale a disposizione non in una sola, ma in svariate storie che possano essere lette da svariate teste. È un concetto molto americano, con un racconto che sia al contempo high & low, che risvegli la curiosità nella persona informata e operi un coinvolgimento anche nella persona che è appena arrivata lì. Non è mica facile.

 

 

Perciò la storia da raccontare è fondamentale…

Assolutamente sì: le opere devono raccontare la storia. Nei musei italiani lo si fa poco, e se una persona senza l’adeguato training va agli Uffizi non riesce a capirli.

La narrazione avviene a seconda di come si pensa la mostra. Noi abbiamo ancora molto l’abitudine di considerare il museo una sorta di teca di conservazione che esiste perchè serve a tenere le cose, quasi come fosse un armadio. Il museo deve essere questo, ma deve anche e soprattutto essere altro; e dovrebbe inoltre essere in grado di generare eventi regolari in modo da creare con il pubblico una sorta di long term relationship: ovvero, io ci vado regolarmente, per me è una bella abitudine, ci vado e ci torno perchè l’ho visto e mi piace.

Quando io inventai Palazzo Reale lo feci con queste premesse. Purtroppo, i miei successori non hanno più fatto passi in avanti. Non si dovrebbe andare a vedere una mostra ogni tanto, ma poterci tornare per rivedere le stesse cose e di volta in volta qualcosa di nuovo, perché è arrivato qualcosa di collegato. Un po’ quello che è successo qui con la donazione dei Bertolini.

 

 

Quindi ritiene che iniziative come questa di Sisalpay siano importanti?

Hanno un’enorme utilità. Perché è comunicazione: non è detto che tutti gli ospiti invitati questa sera siano già stati qui, come non è detto che tutti ci vengano regolarmente. Ecco perché un’altra cosa importante è che una struttura come questo museo abbia una serie di meccaniche di animazione regolare. E non solo il privato, come SisalPay, ma soprattutto il museo stesso deve proporre iniziative come questa, e deve essere in grado di trovare esso stesso gli sponsor. Questa sera SisalPay ha fatto un gesto apprezzabile, ma normale, non incredibile, se lo compariamo con quanto succede altrove: a Monaco, a Berlino, a Parigi succede regolarmente che un gruppo privato, nelle operazioni delegate all’immagine dell’azienda, si interessi a un fatto museale. Ma ribadisco, dall’altra parte, quella ufficiale, ci dovrebbe sempre essere il museo che operi in questo senso di norma.

Io mi sono molto occupato di questo argomento, ed è quello che poi mi ha spinto a lavorare su Milano. Ad esempio, i musei di Chicago hanno un fundraising office con 160 dipendenti e all’epoca in cui io ci ho lavorato recuperavano 60 milioni di dollari all’anno! Questo accadeva perché 160 persone ogni mattina andavano a fare quel mestiere, e seppure fossero in concorrenza con altre 100 persone che facevano lo stesso lavoro per l’università, riuscivano nell’intento.

 

Perché in Italia non lo si fa?

Certo, anche in Italia alcuni si impegnano nella raccolta fondi. Lo fa la chiesa, lo fa il volontariato. Anche in Italia lo sappiamo fare, anzi, siamo stati noi ad inventarlo. Il primo fundraising dell’Occidente, della storia dell’umanità, è stato fatto a Milano nel 1451: la Festa del Perdono per la costruzione della Cà Granda.

Non è vero che sono cose in cui non siamo competenti. È che noi siamo lentamente implosi, e rispetto al resto delle comunità d’Occidente non abbiamo più capito niente. Di chi sia la colpa non lo so, non è mai colpa di nessuno ed al contempo è colpa di tutti. Certo, l’Italia politica non ha questi problemi, se ne frega. L’Italia privata invece lo fa in altri settori: lo fa nel campo della medicina, della sanità, quelli della Lega per la lotta ai tumori o a qualsiasi altra grave malattia; lo fa nel volontariato, lo fa per il terzo mondo… Il fatto è che in quei casi lo si fa in ambiti di autonomie di libertà. Invece, in quest’altro ambito non lo si fa perché la controparte è lo Stato o il Comune. Se noi domani facciamo un committee per la salvaguardia di Palazzo Reale, l’Assessore si offende. La politica dovrebbe intraprendere decisamente una strada e imporla, ma non succede mai. Io, per salvarmi la coscienza, sono riuscito per almeno due volte a fare delle innovazioni giuridiche che sono poi diventate stabili. Nel ’94, ho inventato le fondazioni per i teatri d’opera: all’epoca avevo la responsabilità del Teatro alla Scala e in quel periodo c’era stato un grande taglio dei finanziamenti pubblici. Feci una riunione coi 13 sindaci delle città dei teatri d’opera e col Ministro dei Beni Culturali e gli dissi che avevo la soluzione, ed in seguito con la Finanziaria venne approvata la mia proposta. Queste fondazioni esistono tuttora, anche se funzionano ancora male. Poi ho inventato i co.co.co., perché mi stavano per chiudere le scuole milanesi; feci una riunione con tutti i sindacati, e riuscimmo a risolvere la situazione. Quindi ci sono delle cose che si possono fare.

 

 

Qual è lo stato dell’Arte a Milano?

A Milano c’è un dato nuovo, oggettivo, che è dovuto alla competizione delle fondazioni private, che stanno dandosi un po’ da fare con passione e ingenuità al contempo. Miuccia Prada ci mette tutta la sua passione, ma poi capita che lasci gestire le cose a persone sbagliate. I Bertelli sono molto orientati sul trendy: a me piace molto, ma questo dovrebbe essere gestito da persone più adeguate.

 

 

Qual è l’ostacolo alla reale fattibilità di un museo ideale?

Un museo non si fa in un quarto d’ora, si fa con un piano ventennale andando ad investire in aree dove gli altri non hanno investito; si fa con l’abilità delle direzioni, si fa con la capacità di attrarre le donazioni. A Milano ci sono almeno trenta persone che sarebbero onorate di cedere qualcosa, se in cambio avessero l’onore della cessione. Però per ottenere questo risultato ci vuole qualcuno in grado di farlo… Kirk Varnedoe è stato per anni il boss del Moma, era uno di ottima famiglia, arrivava con una moto di una grossa cilindrata, abbronzato e fico e portava fuori le signore a cena e le conosceva tutte. Ci vogliono le persone giuste. In Italia manca la formazione: infatti l’unica cosa che mi pento di non aver fatto negli anni passati, quando ero a capo delle scuole comunali milanesi, è stato riuscire a  fare una scuola di formazione per amministratori civici.

Il nostro sistema culturale è conseguenza anche della fragilità di chi è stato inserito. Adesso il povero Ministro  Franceschini è caduto nella trappola di prendere sul mercato internazionale dei direttori di musei impreparati a rapportarsi con la realtà italiana. Certo, le risorse interne non sono eccezionali, ma pur sempre più adeguate alla nostra situazione.

Certo, se penso a che cos’era la generazione precedente alla mia… Quelli un po’ più vecchi di me nell’ambito ministeriale erano dei califfi, Carlo Bertelli era un intellettuale rispettato. Nicola Spinosa mi portò a fare il primo convegno a 27 anni alla Yale University… Penso poi a Emiliani a Bologna, ad Antonio Paolucci che poi ha anche fatto il Ministro del Beni Culturali… Ciò che è venuto dopo è colpa di una gestione fragile. Quelli che hanno preso ora erano quelli disponibili sul mercato e che non avevano nulla da fare. Li conosco, brava gente che in un ufficio con tante persone avrebbero senza dubbio un ruolo da svolgere, se avessero un capo.

E come si fa a reclutare le persone giuste?

Con la volontà di un disegno amministrativo.

 

 

 

 

 

Visita guidata di Luca Beatrice al Museo del Novecento di Milano. Intervista
30 Ott

Visita guidata di Luca Beatrice al Museo del Novecento di Milano. Intervista

Terzo ed ultimo appuntamento a cura di Sisalpay (clicca quiqui per i precedenti) al Museo del Novecento: dopo le visite guidate da altri ospiti d’eccezione quali Vittorio Sgarbi e Philippe Daverio, tocca ora a Luca Beatrice chiudere questo ciclo, illustrando – oltre alle nuove collezioni pervenute – un percorso lungo il museo tutto.

Come nelle precedenti occasioni, anche a lui abbiamo rivolto alcune domande.

Nelle precedenti occasioni, prima con Vittorio Sgarbi e poi con Philippe Daverio, ho avuto modo di chiedere un’opinione riguardo all’apporto dei privati – collezionisti come i Bertolini, che offrono il proprio patrimonio artistico, o società come SisalPay che supportano i costi di un’operazione come questa – nei confronti della realtà museale italiana. Il solo fatto che questo debba diventare argomento di discussione è indice di qualcosa, senza dubbio. E la prima cosa che può venire in mente è la scarsa presenza delle istituzioni…

Non sono d’accordo: in realtà, da questo punto di vista, l’Italia è assolutamente un paese di grandi istituzioni. Da noi la cultura è stata, fino a non molto tempo fa, totalmente a carico del pubblico, e quindi dei contribuenti. La sensibilità di avvicinare i privati a questa realtà è un fenomeno recente, simile per certi versi a quanto già in voga negli Stati Uniti, ma su cui da noi c’è certamente ancora molto da lavorare. Però non dimentichiamoci del fatto che se in Italia si può parlare di cultura è perchè esiste davvero una fortissima struttura pubblica, che è stata finora la forza del nostro paese. Vedremo se i privati saranno in grado di intervenire in modo massiccio con operazioni qualitativamente e quantitativamente di livello.
Questa iniziativa di SisalPay è molto positiva, perché l’azienda – come capita anche per alcune altre – si pone, in relazione all’arte, in maniera diversa e superiore rispetto alla figura del classico mecenate, permettendo così uno sviluppo dinamico della cultura che fino ad oggi era stato un po’ sacrificato.

 

 

Per un totale profano del 2015 credi sia più importante ed utile un primo approccio all’arte qui, al Museo del Novecento, o piuttosto in un’altra sede, al cospetto dei grandi Classici, magari rinascimentali?

Io penso che le occasioni possano essere molteplici. Non credo ci sia un posto giusto per andare a imparare l’arte. Certo è che se ci fosse da parte del pubblico una più spiccata abitudine a recarsi in luoghi come il Museo del Novecento, o come le grandi collezioni di arte contemporanea, si svilupperebbe probabilmente una mentalità meno conservatrice che non debba sempre rivolgersi al paracadute del Classico.

 

 

Ma per chi proprio non si è mai avvicinato all’arte, non è forse più semplice vedere un quadro agli Uffizi che non capire un’opera di Koons? Oppure, al contrario, l’arte contemporanea è più segno dei tempi, e quindi più vicina al nostro sentire?

Io penso che l’iPhone sia lo strumento elettronico più facile da utilizzare: non ha neanche il libretto di istruzioni. Invece il vecchio Nokia conteneva un libro di quaranta pagine, nonostante fosse un oggetto apparentemente più semplice.

 

 

Se tu potessi allestire un “Museo del Duemila”, porresti un concetto al centro del museo, ed eventualmente quale?

Io non credo che in questo momento ci sia bisogno di un museo del 2000. Credo però che ci sarebbe bisogno di dare più spazio all’arte contemporanea in collezioni del Novecento, perchè secondo me spesso si fermano un po’ troppo presto. Per quanto riguarda il fatto di creare altri musei direi di no, credo ce ne siano già abbastanza, almeno in Italia. E comunque a Roma abbiamo il MAXXI, che a tutti gli effetti è il museo del XXI secolo… anche se non mantiene la promessa, di fatto lo è.

 

 

L’EXPO finisce domani. Nel nome di EXPO sono state varate diverse iniziative, tra cui questa, che apparentemente hanno poco a che vedere con il concetto del “nutrire il pianeta”. Come pensi che questo evento possa relazionarsi con EXPO, o col suo slogan?

Mi pare che tutto si possa collegare soltanto ipoteticamente al fatto che Milano in questi ultimi sei mesi si sia dimostrata il cuore pulsante dell’Italia, il motore trainante di iniziative e di energia. Venire a Milano in questo momento permette di respirare una boccata di ossigeno rispetto ad altre città italiane magari un po’ più tradizionali. Credo che si sia messo in moto un meccanismo di ripartenza fondamentale del Paese nei cui confronti io sono estremamente fiducioso.

 

 

 

Intervista a Dorfles: dalla nuova mostra al MACRO alla situazione dell’arte italiana
24 Nov

Intervista a Dorfles: dalla nuova mostra al MACRO alla situazione dell’arte italiana

Gillo Dorfles è l’arte italiana; il decano di ogni critico, di ogni artista contemporaneo. Un uomo la cui carriera, quella artistica come quella accademica, nonché letteraria e anche filosofica, si svolge ininterrottamente, e ad altissimi livelli, fin dagli anni trenta del secolo scorso.

Oggi, a 105 anni compiuti, Gillo Dorfles è tuttora attivo, attento a ciò che accade nel mondo – che lucidamente analizza con immutata profondità – e, cosa più importante per lui, creativo.

Ecco perché a Roma, al MACRO – Museo dell’Arte Contemporanea – sarà allestita, a partire dal 26 novembre 2015 e fino al 30 marzo 2016, l’esposizione “Gillo Dorfles – Essere nel tempo”, in cui sono presenti opere anche recentissime del’artista, risalenti all’estate scorsa. Una mostra che abbraccia un arco di tempo, del Dorfles pittore, che risale fino alla metà del Novecento.

In occasione di questo imminente evento siamo andati a trovarlo nella sua casa milanese per porgli alcune domande, accennando alla mostra stessa – di cui Dorfles non vuole parlare molto, ritenendo, a ragione, che vada piuttosto visitata – e chiedendogli anche un punto sulla situazione dell’arte italiana.

 

 

Quali opere vedremo nella mostra al MACRO? E cos’altro può anticiparci riguardo a questa esposizione?

Piuttosto che fornire anticipazioni, preferisco andiate a vederla… spero lo farete. Sono esposte le opere dei miei ultimi anni – anche se i miei “ultimi” sono più numerosi di quelli di quasi tutti gli altri. Ci tenevo, dopo le mie più recenti esposizioni di Palazzo Reale e di Rovereto, che erano antologiche, a fare una mostra delle mie ultime produzioni; questo significa esporre le opere dei miei ultimi 50 anni: credo sarà interessante. Saranno inoltre trattati altri aspetti del mio lavoro, come ad esempio la mia attività letteraria, e credo che questo possa fornire una visione più completa della mia opera.

Alla sua recente mostra alla galleria Marconi di Milano ho visto in particolare le sue opere degli ultimi 30 anni, ovvero quelle seguenti al suo rientro – da pittore – nella scena artistica. Come si concilia lei, Professore, con i tempi moderni? Quelle opere sono le opere di un Dorfles postmoderno?

Io ho sempre seguito l’arte contemporanea. Nel senso letterale del termine: non sono uno storico dell’arte, per cui ho sempre seguito l’arte del mio tempo. Naturalmente oggi il mio tempo è un po’ arretrato, però quello che suscita il mio interesse sono sempre le ultime correnti, decisamente più di quanto non mi interessi il passato, per quanto questo passato possa io anche considerare artisticamente superiore. Ormai certe correnti artistiche passate hanno i loro rappresentanti e cultori storici, quindi è inutile che me ne occupi io.

A proposito di modernità: quale ritiene possa essere la differenza tra un’arte contemporanea ed un’arte moderna? Forse l’utilizzo dei nuovi media?

Nella nostra epoca il panorama muta ogni decennio, sulla scia dei cambiamenti sociali, culturali e tecnologici che diventano man mano più repentini. Le avanguardie del novecento avevano una durata maggiore, mentre oggi le correnti durano magari poche settimane; già i movimenti artistici della seconda metà del secolo scorso ebbero una vita attiva decisamente più breve rispetto al passato. Ora, le cose sono cambiate notevolmente rispetto al secolo scorso: oggi ogni cosa muta rapidamente, attraverso i nuovi media la trasformazione è molto più veloce. L’arte povera oggi non esiste più, ha avuto un breve periodo di vita, e basta. La transavanguardia, già negli ultimi anni ottanta, addirittura durò soltanto qualche mese.

A causa dei nuovi mezzi espressivi, oltre che della concettualizzazione sempre più forte dell’arte, ho l’impressione che ci siano sempre meno pittori.

Non è vero. È ancora pieno di pittori, ovunque. Spesso passano più in sordina rispetto a chi fa arte concettuale, che però in molti casi altro non è purtroppo che arte di second’ordine. Non c’è alcun pericolo che la pittura possa ritrovarsi destinata a diventare una forma espressiva dal sapore nostalgico e retrò, men che meno a scomparire.

Lei però ha detto che non c’è più spazio per l’arte figurativa, dopo l’avvento della fotografia, del cinema e della televisione.

Certo che non c’è n’è più: l’arte figurativa è scomparsa quasi completamente. Il ritratto, il paesaggio non esistono più. Peraltro, anche quello è stato un periodo relativamente breve: il paesaggio vive il suo culmine con l’impressionismo, che fu un periodo di una ventina di anni. Oggi nessuno va con il cavalletto a dipingere il Lambro. Con tutte le fotografie che ci sono… Si tratta di un tipo di pittura rappresentativa, figurativa che non esiste più e non esisterà più.

E ai giovani che tuttora amano in modo particolare l’arte figurativa cosa consiglia di fare?

Ci si rifaccia al passato, perchè oggi non c’è niente del genere. Chi andrebbe a fare una cosa del genere? Io stesso venti o trent’anni fa ho provato ad andare con il cavalletto in Brianza e dipingere il paesaggio, ma mi rendo conto che era una pura follia: il risultato era tutt’al più una cattiva imitazione di Seurat. Dopo i grandi impressionisti il paesaggismo non esiste più.

Vedo lì (nel suo salotto, ndr) un libro di Adorno… e penso che lui un po’ di tempo fa disse: “Il compito attuale dell’arte è di introdurre il caos nell’ordine”. Oggi? Ha ancora un compito, l’arte? Quale?

Quella di Adorno è solo una boutade. Il compito dell’arte, oggi, è semplicemente quello di esprimere le proprie fantasie se ci sono; chiaramente, se uno non ne ha, non ha niente da esprimere.

Ma cos’è l’arte? Mi perdoni se le faccio la domanda più banale del mondo, ma non so chi potrebbe rispondermi se non lei. Questo è un estremo tentativo, perché forse lei è l’unico che potrebbe darmi una risposta.

Devo disilluderla: è davvero una domanda a cui non si può neanche cominciare a rispondere.

L’italia e l’arte: il nostro paese è ancora protagonista, da quel punto di vista? Ha ancora un’influenza nel mondo?

L’arte italiana ha ancora buoni artisti, ma non sa creare più grandi o medi movimenti. Dopo quanto fatto nel Novecento, dal futurismo fino a – come dicevo prima – correnti come l’arte povera o la transavanguardia – che non saranno delle grandi correnti, ma che però hanno avuto i loro capolavori – la nostra arte ha certamente patito lo spostamento del baricentro artistico dall’Europa agli Stati Uniti. Dai tempi di Pollock, Rotchko, e poi Warhol, fino ad oggi, i grandi artisti si trovano sempre più facilmente in America. Del resto è anche logico: gli Stati Uniti, fino a cinquanta anni fa, non avevano avuto le possibilità e il background che aveva l’Europa.

E di artisti italiani come Cattelan, che godono comunque di una notevole risonanza internazionale – grazie indubbiamente anche all’idea provocatoria – che pensa?

Penso che in questo momento in Italia non abbiamo più artisti dell’importanza di quelli legati ai movimenti che ho citato. L’epoca dei futuristi, dei Capogrossi, è finita. Spiace dirlo, ma purtroppo è così.

 

Svastiche, bombe e dittatori. Il mondo? Una contraddizione
16 Nov

Svastiche, bombe e dittatori. Il mondo? Una contraddizione

Dal 15 novembre al M.A.C. di Milano c'è “The Best is yet to come” di Max Papeschi.

La mostra, curata da Silvia Basta e dal fondatore dei Devo Gerald Casale e presentata da Fondazione Maimeri, è un'antologica della folgorante carriera di Papeschi.

L'artista milanese, dopo otto anni di scandali, polemiche, e surrealtà varie - a partire dal gigantesco Topolino con svastica sulla facciata di un palazzo di Poznan, fino alla recente investitura ad ambasciatore della propaganda socio-culturale della Corea del Nord, si sofferma con l'abituale ironico egocentrismo a contemplare la propria parabola. E, assicura, il meglio deve ancora venire.

Il percorso espositivo racconta le tappe più importanti della storia di Papeschi, che in pochi anni ha saputo essere talmente non-artista da diventare uno degli artisti italiani di oggi più noti all'estero.
Dall'ingresso, interamente tappezzato con la sua rassegna stampa, alle prime opere che lo hanno consacrato: il nazitopolino sexy, che è stato l'inizio di tutto, il bambino di "Wall Street" del 2009 e i dirigibili incendiari della Coca-Cola.

Le sue opere sempre spiazzanti e irriverenti, utilizzano i simboli della cultura contemporanea rimescolandoli e mettendone così a nudo le forti contraddizioni. Un costante lavoro sui contrasti, come emerge anche dai lavori più classici: dalla Società dello Spettacolo a From Hiroshima with Love.

E il contrasto è davvero forte soprattutto quando Papeschi fa stridere l'innocenza, la favola, con la cruda realtà: come nei personaggi più amati da grandi e piccini, riveduti e scorretti dall'artista.

Un grande vidiwall proietta, in loop, il recente risultato della collaborazione tra Papeschi e Casale: è "It's all Devo" ultimo brano del musicista americano, con Maurizio Temporin alla regia e il supporto musicale dei Phunk Investigation.

Nella parte finale del percorso espositivo alcune opere del più recente progetto dell'artista Milanese, "Welcome to North Korea", chiudono il percorso e ci accompagnano verso l'uscita, dove una copertina per la rivista "Arte.it", rielaborazione di una storica pagina del Sun su Sid Vicious, vede Papeschi protagonista. Non certo morto, al contrario del bassista dei Pistols, ma più vivo che mai: il meglio, infatti, deve ancora venire.

The Best is yet to come resterà al M.A.C. fino al 26 novembre 2016

Una Nuvola di tecnologia scende dal cielo
30 Ott

Una Nuvola di tecnologia scende dal cielo

Inaugurato il nuovo Roma Convention Center all'Eur, da oggi “tra Roma e il cielo” fluttuerà la Nuvola di Fuksas. Il progetto, voluto da EUR SpA, tende a una nuova ricandidatura del quartiere romano a simbolo del Nuovo; e, settanta anni dopo il razionalismo del ventennio, lo fa utilizzando non solo materiali e tecnologie estremamente avanzate, ma anche sfuggendo del tutto alla razionalità della geometria euclidea. La Nuvola, che è il fulcro del nuovo centro congressi, è infatti un oggetto del tutto privo di una forma definita, che trae ispirazione dai viaggi transoceanici di Fuksas negli anni novanta. Il rapporto tra il “sopra” e il “sotto” delle nuvole, osservate dall’aereo, è stato rivelatore per l’archistar, che pone infatti l’accento - ancor più che sulla sua nuvola - sugli spazi tra essa e la gigantesca teca di vetro che la racchiude. Un nuovo punto di riferimento quindi, che entrerà nell'immaginario del quartiere: come dice l’architetto, “dall'interno si vedrà l'esterno, e dall'esterno la notte si vedrà questa grande lampada e darà un segno.” La geometria molto semplice dell'Eur non cambia: la complessità è stata data all'interno. Tre sono gli elementi che, intersecandosi, costituiscono il nuovo complesso, costruito su una superficie di quasi sessantamila metri quadri: La Teca, ovvero il contenitore; la Nuvola, in nervature d’acciaio rivestite da un telo trasparente, che ospita l’auditorium per 1800 posti; e la Lama, ovvero l’albergo, alto 55 metri, con 439 stanze e pensato come struttura autonoma. E la progettazione del complesso si contraddistingue per un approccio eco-compatibile, volto a ridurre il consumo energetico: dal sistema di climatizzazione che consente un consumo ottimale di energia in funzione dell’affollamento dei locali, alla copertura della teca con elementi fotovoltaici che consentono una produzione naturale di energia elettrica. Perché il futuro dell’architettura non può prescindere da quello dell’ambiente che la ospita.

Andy, genio e profeta dell’arte contemporanea
24 Ott

Andy, genio e profeta dell’arte contemporanea

A trent’anni esatti dalla scomparsa del grande artista americano, Palazzo Ducale di Genova e 24 ORE Cultura dedicano una grande retrospettiva ad Andy Warhol (Pittsburgh, 6 agosto 1928 – New York, 22 febbraio 1987).  Curata da Luca Beatrice, prodotta e organizzata da Palazzo Ducale Fondazione per la Cultura di Genova e da 24 ORE Cultura - Gruppo 24 ORE, la mostra presenta circa 170 opere tra tele, prints, disegni, polaroid, sculture, oggetti, provenienti da collezioni private, musei e fondazioni pubbliche e private italiane e straniere.  Il percorso tematico si sviluppa intorno a sei linee conduttrici: le icone, i ritratti, i disegni, il suo importante rapporto con l’Italia, le polaroid, la comunicazione e la pubblicità.
Una mostra che copre l’intero arco dell’attività dell’artista più famoso e popolare del secolo scorso. Con lui si apre l’epoca dell’arte contemporanea, così come ancora la intendiamo oggi. Se nel calendario della musica pop c’è un ante e un post Beatles, l’unico fenomeno culturale e mediatico degli anni Sessanta in grado di rivaleggiare con Warhol, allo stesso modo in quello dell’arte dobbiamo parlare di un “Before Andy” e di un “After Andy”.

Soprattutto, Andy Warhol è stato capace di intuire e anticipare i profondi cambiamenti che la società contemporanea avrebbe attraversato a partire dall’era pop, da quando cioè l’opera d’arte ha cominciato a relazionarsi quotidianamente con la società dei massmedia, delle merci e del consumo. Nella Factory, a New York, non solo si producevano dipinti e serigrafie: si faceva cinema, musica rock, editoria, si attraversavano nuovi linguaggi sperimentali in una costante ricerca d’avanguardia. Anche nei confronti della televisione, il nuovo medium per eccellenza, Warhol manifestava una curiosità straordinaria e, probabilmente, se fosse vissuto nei nostri tempi, non avrebbe esitato a usare i social network e la comunicazione in rete.

In mostra alcuni straordinari disegni preparatori che anticipano dipinti famosi come il Dollaro o il Mao; le celeberrime icone di Marilyn, qui presente sia nella serigrafia del 1967 sia nella tela Four Marilyn, della Campbell Soup e delle Brillo Boxes; i ritratti di volti noti come Man Ray, Liza Minnelli, Mick Jagger, Joseph Beuys e di alcuni importanti personaggi italiani: Gianni Agnelli, Giorgio Armani e Sandro Chia. Un’intera sezione è poi dedicata alle polaroid, tanto importante e utilizzata da Andy Warhol per immortalare celebrities, amici, star e starlett e di cui si presentano oltre 90 pezzi.

Warhol Pop Society rimarrà a Palazzo Ducale fino al 26 febbraio 2017.

Help! Il mondo è ridotto a un cumulo di spazzatura
26 Set

Help! Il mondo è ridotto a un cumulo di spazzatura

La monumentale installazione Help, l’età della plastica, ideata dall’artista Maria Cristina Finucci, è a Mozia dal 25 settembre all’8 gennaio.

Mozia, l'antica città fenicia situata sull'isola di San Pantaleo, nello stagnone di Marsala, è da tempo candidata come Patrimonio dell'Umanità dell'Unesco. Questo, grazie alle importanti rovine di epoca fenicia.

Quasi paradossale appare il fatto che, ancora prima di riconoscere il sito siciliano, l'Unesco abbia riconosciuto ben altre rovine: quelle della inciviltà moderna.

È infatti dal 2013 che l'ente delle Nazioni Unite ha riconosciuto il Garbage Patch State: ovvero, l'immensa, simbolica nazione - seconda solo alla Russia per dimensioni - fondata da Maria Cristina Finucci e composta dalle immense chiazze di rifiuti plastici dispersi negli oceani, meglio note come Pacific Trash Vortex.

Ecco quindi che l'architetto Finucci, con la collaborazione della Fondazione Terzo Pilastro - Italia e Mediterraneo e della Fondazione Whitaker (proprietaria dell'isola) propone questa installazione.
5 milioni di tappi di plastica, racchiusi in gabbie metalliche, per un'altezza di 4 metri in uno spazio di 1500 metri quadrati, compongono la parola "HELP".

Un contrasto forte con le rovine fenicie di Mozia. L'obiettivo, va da sé, è quello di continuare a fare riflettere sulla situazione degli oceani, che di anno in anno si fa sempre più drammatica.

E questo "HELP"; questa richiesta di aiuto, si colloca nell’ambito del progetto della Finucci "Wasteland - The Garbage Patch State" diretto da Paola Pardini, che coinvolge organismi internazionali, aziende, fondazioni, associazioni e università, come Roma Tre e l’Università degli Studi di Palermo, che per l'evento di Mozia hanno creato una catena umana di sensibilizzazione per la raccolta dei materiali plastici su vasta scala.

Twelve Shoes: la calzatura come filo conduttore tra Artigianato, Moda e Arte
03 Set

Twelve Shoes: la calzatura come filo conduttore tra Artigianato, Moda e Arte

Alla Galleria dei Passi Perduti – mai nome fu più adatto! – di Palazzo dei Giureconsulti a Milano c’è “Twelve Shoes una per ogni ora del giorno” una mostra a cura di Daniela Fedi e Lucia Serlenga che, con il supporto del fotografo Federico Garibaldi e theMICAM, salone internazionale della calzatura leader a livello mondiale, indagano sulla calzatura come filo conduttore che unisce Artigianato, Moda e Arte.

 

L’esposizione nasce da un’osservazione di costume: è evidente che non basti un solo paio di scarpe. E se il New York Times, in una propria indagine, ha stabilito in 5 il numero di paia essenziali, le curatrici sono arrivate a considerarne dodici. Come le ore della giornata, ognuna vissuta intensamente dalla moderna “Wonder Woman”, che per questo necessita di affrontarle con il giusto confort. Mettendo in mostra così una nuova filosofia di vita hanno selezionato dodici scarpe-simbolo tra le nuove proposte presentate in fiera degli oltre 1450 espositori di theMICAM.

“Le calzature, nella loro dimensione quotidiana, rappresentano un prolungamento di noi, delle nostre intenzioni, delle nostre esperienze, perfino dei nostri ricordi” spiega Annarita Pilotti, presidente di Assocalzaturifici. Ecco quindi che le gigantografie di Garibaldi ritraggono le scarpe come un soggetto assolutamente dinamico, in sintonia con chi le indossa. E il fotografo, quasi come un moderno Boccioni, esplora i rapporti tra lo spazio e l’oggetto, cogliendone il dinamismo.

Le opere sono poste accanto ai soggetti ritratti, sia per confrontare la visione e l’interpretazione dell’artista che per facilitare la diretta osservazione delle scarpe, che sono indubbiamente oggetti di design e arte applicata.
Abbiamo posto alcune domande alle curatrici.

Una mostra sulle scarpe: scommetto che la percentuale di visitatrici donne sarà particolarmente elevata…

F: In realtà speriamo che ci siano anche degli uomini. D’altronde, come diceva la celebre frase: “Dietro ogni uomo c’è sempre una donna ferma tre vetrine prima a guardare scarpe”.

Come sono nate l’idea della mostra e il rapporto con MICAM?

F: Ci hanno chiamate chiedendoci se ci fosse un modo per raccontare la calzatura in maniera culturale. Da giornaliste, abbiamo risposto che c’è senz’altro un modo sociale per raccontare le scarpe. Dai tempi del film “Una donna in carriera”, con Melanie Griffith che usciva di casa con le sneakers e arrivava in ufficio pronta per sedurre Harrison Ford mettendosi le scarpe col tacco, c’è stata una escalation, e la situazione è arrivata a una complessità più articolata.

S: E la sfida è stata quella di trasformare l’analisi sociale in un grande esercizio d’arte. Abbiamo scelto un fotografo molto bravo che ha saputo cogliere il lato artistico della scarpa, un oggetto di design straordinario.

 

 

Sono dodici le scarpe esposte. Con che criterio le avete scelte?

F: Le abbiamo scelte partendo da una scansione temporale: dodici ore, dodici scarpe. E per ogni ora abbiamo scelto quella che ci pareva la più idonea ad esprimere sia il lato artistico che quello funzionale, oltre che etico. Non è stato semplice, perché a theMICAM ci sono oltre 1400 espositori.

Se questa mostra fosse stata fatta al maschile ci sarebbero molte meno scarpe in mostra. È vero? E perché?

F: Si, effettivamente si, perchè gli uomini non portano il tacco.
S: Non ancora… (risata generale)

Il rapporto tra arte e moda è stato indagato più spesso di recente, con mostre come “Bellissima”, o anche la recentissima “Tra Arte e Moda” al museo Ferragamo, in cui tra le altre cose si possono vedere le “Tirassegno Decolletè” di Ferragamo stesso, ispirate a un opera di Kenneth Noland. Si va sempre più verso un riconoscimento del valore artistico di questo tipo di artigianato?

S: Sono assolutamente convinta che sia così. Anzi, sarebbe auspicabile che il trend salisse ulteriormente, perchè nella scarpa, oltre alla creatività italiana, c’è anche moltissimo artigianato. Ogni volta che ci guardiamo i piedi dovremmo capire che dietro a ciò che indossiamo c’è qualcuno che ha fatto almeno un centinaio di operazioni anche manuali per creare quelle scarpe.

 

 

Una coppia di artigiani calzaturieri belgi appassionati di arte contemporanea ha aperto “Shoes or no Shoes”, un museo di scarpe d’artista: indossate da artisti mentre dipingono, raffigurate da artisti, diventate esse stesse opera d’arte ready-made.
Tornando però alla scarpa da indossare, e considerando il fatto che la scarpa di pregio sia innanzitutto un oggetto di design, potremmo dire che sia – tra tutto ciò che indossiamo – la cosa più “artistica”?

F: Questo forse no. Però chiediamoci perchè Ferragamo nasce dalle scarpe e diventa un marchio così importante, Hermès nasce da borse e scarpe e diventa un marchio così importante…Valerie Steele, direttrice e curatore capo del museo “Fashion Institute of Technology” dice: “Una scarpa messa per terra sta per conto suo! La sua forma e l’aspetto non cambiano. Se sembra emozionante è emozionante su qualsiasi donna. Un vestito e una camicetta per terra sono solo pezzi di stoffa”. È vero: la scarpa è emozionante con e senza una donna, e non è una cosa da poco, è un’osservazione molto intelligente.

Andy Warhol, forse il più emblematico tra gli artisti moderni, nasce e si afferma in realtà – negli anni 50 – come illustratore di scarpe per Vogue, Harper’s Bazaar e riviste simili. I suoi modelli erano particolarmente estrosi e moderni, molto simili a quello che si vede in passerella nelle collezioni degli shoe designer di oggi. Al di là delle mode, quindi, esiste un’arte della scarpa classica e senza tempo?

F: Ti risponderemo meglio con un’altra mostra in futuro… per ora non possiamo anticipare. Ma comunque assolutamente sì!

 

 

Nel catalogo della mostra c’è uno “scarpario” ovvero il vocabolario ai piedi delle donne.

S: Abbiamo cercato di dare più informazioni possibili sulle scarpe. “Kitten Shoes”… che cosa sono? E le Mary Jane? Le Open Toe? Crediamo sia molto divertente e utile.

 

Grazie alle curatrici e complimenti ad Assocalzaturifici e MICAM per le scarpe!

Il Colosseo ritorna meraviglia agli occhi del mondo
30 Giu

Il Colosseo ritorna meraviglia agli occhi del mondo

Dal primo di luglio 2016, il Colosseo si riveste di una nuova luce.

Il “piano degli interventi” per il restauro del Colosseo è un progetto voluto dal Commissario Delegato per le Aree Archeologiche di Roma e Ostia Antica, d’intesa con la Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma.

Ma è grazie al contributo di un privato, il gruppo Tod's, che tramite un'azione di mecenatismo senza alcun ritorno di pubblicità o di natura commerciale, ha avviato da tempo la più grande opera di restauro dell'Anfiteatro Flavio, che oggi possiamo tornare a rivedere questo importante monumento come non appariva da almeno tre secoli.

La prima fase dei lavori è giunta a compimento e ha riguardato il prospetto settentrionale e quello meridionale, ovvero 31 fornici pari a circa 13.300 mq di superficie, e la sostituzione dell'attuale sistema di chiusura dei fornici con la realizzazione di nuove cancellate.

Il piano degli interventi continuerà con il restauro degli ambulacri, dei sotterranei del Colosseo, la messa a norma e l’implementazione degli impianti e la realizzazione di un centro servizi che consenta di portare all’esterno le attività di supporto alla visita che sono attualmente all’interno del monumento.