Bruxelles è una città che vive di arte, ed è capace di sorprenderci: con la maestosità dei palazzi della Grand Place, con i suoi edifici Art Nouveau di Van der Velde, Hankar e Horta, ma anche con la presenza di importanti musei. Ad esempio, il museo di Magritte, pittore belga che non ha bisogno di particolari presentazioni; o anche il museo Hergè, quasi a fare da contraltare: si tratta del museo dedicato al famoso fumettista – belga anch’egli – creatore di TinTin. Di fatto, Bruxelles è da molti considerata la capitale della nona arte, grazie alla cultura che questo paese coltiva nei confronti della medesima: esiste infatti anche un importantissimo museo del fumetto.
In questo contesto, così attento alla bellezza, all’arte, alla qualità della vita ed al piacere, da quasi sessant’anni si svolge un’importante manifestazione, che di fatto apre il calendario delle grandi mostre d’arte europee. Si tratta di Brafa Art Fair, la cui edizione del 2014 si svolge dal 25 gennaio e fino al 2 febbraio.
Brafa nasce come fiera dell’antiquariato, ma di fatto nel corso degli anni si trasforma in una fiera del collezionismo, in cui è possibile trovare pezzi importanti e rari che attraversano il tempo, abbracciando ogni epoca. Camminando tra gli stand anche quest’anno abbiamo visto di tutto, dall’arte dell’antico Egitto o addirittura della Mesopotamia di oltre cinquemila anni fa a quella medioevale, fino ad opere contemporanee come possono essere quelle dei vari Dalì, Magritte o anche Warhol o Haring; pezzi di modernariato di notevole valore; molta art decò, molto liberty, e anche – immancabile a Brafa – una vastissima selezione di arte tribale africana.
Per il collezionista, questa fiera rappresenta un’occasione importante per accaparrarsi pezzi unici, che possono anche valere milioni di euro. Per chi non disponga di budget spropositati, comunque, non è difficile trovare – a costi decisamente più accessibili – oggetti davvero belli e preziosi per arricchire la propria casa.
Ma il bello di Brafa è che, più in generale, rappresenta una sorta di grande mostra che offre l’opportunità irripetibile di avvicinarsi ad una serie di capolavori molto eterogenei, accomunati sì dal valore collezionistico, ma che allo stesso tempo permettono al visitatore di godere di una panoramica sull’arte e sulla bellezza che percorre idealmente tutta la storia della civiltà umana, in ogni continente.
Storicamente, al Brafa la presenza più importante è quella dei collezionisti – come anche degli espositori – nordeuropei. Negli ultimi anni, però, cresce sempre più la partecipazione di operataori provenienti dall’Italia. Quest’anno sono quattro gli espositori che portano le loro opere qui in fiera. Due di questi sono al loro esordio: Chiale Antiquariato, di Racconigi, che esordisce con un importante busto di nobildonna in legno dipinto eseguito dal Pollaiolo tra il 1465 e il 1470, e Robertaebasta di Roberta Tagliavini di Milano, che oltre a diversi elementi di arte decorativa porta una grande tela di Mario Cavaglieri, importante pittore liberty rodigino già apprezzato da Roberto Longhi, che è stato definito da Vittorio Sgarbi come il pittore del novecento da lui più amato.
Accennavamo al fumetto. Ritrovandosi in quella che è considerata la capitale del collezionismo di settore, Brafa è diventato un vero e proprio luogo di culto per aver ospitato in passato le procedure di una vendita da due milioni di euro di un pezzo da collezione ambitissimo: la copertina dell’albo di Tintin ‘Les Cigares du Pharaon’. Nell’edizione di quest’anno ci sono due gallerie specializzate – Champaka (che espone tra le altre la tavola 8 tratta da “Valentina e gli ussari della morte”, opera del 1968 del nostro Guido Crepax) e Petit Papiers – che portano circa 50 disegni originali di alcuni fra i più noti artisti del genere. E agli appassionati di fumetti viene data un’opportunità speciale: possono avvicinarsi alle opere esposte, toccarle con mano, scoprire tutti i segreti e le informazioni relative alla loro creazione.
Esistono modi diversi per raccontare un artista: ovviamente visitando le mostre, piccole o grandi, che permettono di vedere dal vivo i capolavori dei pittori e degli scultori che amiamo. Ancor più affascinante, però, è – quando ne abbiamo la possibilità – riuscire a parlare direttamente con gli autori. E scoprirne, oltre all’aspetto creativo, il lato umano. Uno degli artisti che riteniamo umanamente più interessante – chiaramente, non avendolo conosciuto, soltanto avvalendoci dei dati biografici più noti – è Piero Manzoni. A lui Palazzo Reale di Milano, fino al 2 giugno, dedica la più grande mostra antologica finora realizzata in Italia. La sua eredità è ancora viva e attiva, Piero continua a essere una figura estremamente influente nell’arte moderna, oggi come cinquanta anni fa.
Un peccato, insomma, non potere intervistare una mente visionaria come la sua e non poter incontrare l’uomo, oltre all’artista. Grazie alla gentilezza della famiglia Manzoni, però, siamo riusciti a sopperire a questo fatto. Abbiamo incontrato il fratello Giacomo, testimone diretto del Piero ancora vivente e attivo, Valeria, Antonio, Luisa e Antonietta, figli dei fratelli e delle sorelle dell’artista. Non hanno conosciuto direttamente Piero e hanno intrapreso percorsi completamente diversi tra loro, ma hanno vissuto nell’ambiente familiare di Manzoni. Avendo ascoltato storie e aneddoti su lui, possiamo affermare che rappresentano una sorta di incarnazione dell’eredità che Piero ha lasciato.
Giacomo Manzoni di Chiosca, lei era il fratellino minore di Piero. Comincio col chiederle un’opinione sulla mostra di Palazzo Reale. Purtroppo non sono ancora riuscito ad andare alla mostra, e me ne dispiaccio. Si tratta sicuramente di un evento importante: Piero ha sempre voluto bene a Milano e Milano ha sempre voluto bene a Piero.
Che cosa ha portato a questa esposizione, che cosa – o chi – dobbiamo ringraziare, a parte ovviamente l’arte di Piero? Chiaramente la Fondazione Manzoni è stata una componente importante per poter diffondere il nome di Piero un po’ in tutto il mondo, e naturalmente anche Milano si è poi risvegliata a seguito delle altre mostre che sono state fatte in Germania, negli Stati Uniti e così via. Piero già da ragazzo era un personaggio internazionale. A Milano era un po’ meno considerato, ma nei paesi nordici la sua arte era apprezzatissima. L’ultimo viaggio che aveva fatto in Belgio era stato un piccolo trionfo per lui e infatti era tornato davvero felice di quell’esperienza.
Stando a quello che lei ha visto, quali delle opere di Piero è stata quella che lo ha reso più soddisfatto e per la quale pensava di aver toccato i vertici? E quale quella che lo ha tormentato di più, e perché? Senz’altro gli Achrome, tele grinzate. Erano tra le sue prime opere bianche e con quelle aveva staccato con le precedenti. Oltre naturalmente a quei monumenti molto particolari come la Base del Mondo o la linea lunga sette chilometri e più. Lo tormentavano invece i tanti progetti che aveva in corso e che desiderava ardentemente realizzare: in particolare il “Teatro Pneumatico”. Ricordo che ero al secondo anno di ingegneria, e lui mi diceva “ma perché non mi progetti la struttura del teatro? Ho già ideato tutta la forma…” Io gli spiegavo che non ero ancora in grado di progettare una struttura così complessa. Mi coinvolgeva spesso nei suoi lavori perché eravamo molto affiatati: io ero già all’università, non ero più un bambinetto e gli davo una mano dove possibile. Ero appassionato di chimica, per cui in tutti i lavori per cui questa fosse necessaria cercavo di aiutarlo. Ma anche lui aveva una grandissima manualità.
Quale invece il lavoro di suo fratello che lei ha sempre amato di più? E perché? A me piacciono moltissimo le cosiddette “nuvole”, quei ciuffi di lana di vetro. Ma è solo una questione legata al mio senso estetico.
Una domanda che è giusto fare a lei piuttosto che alle altre sorelle, perché lei era più piccolo di Piero. Cosa rappresentava per lei questa figura che per il pubblico rappresenta quasi una leggenda? Mi ricordo momenti di dolcezza, di tenerezza… Spesso si lavorava tutti insieme, per esempio le famose linee hanno impegnato un po’ tutti quanti, perché c’era da tirare di qui, spingere di là, e aprire tutte le porte perché dovevano arrivare dalla parte opposta della casa per poter fare una linea lunga 21 metri… Per me Piero era un modello – più che per la sua arte, che da piccolo non riuscivo a seguire – per certi suoi atteggiamenti, per le sue capacità, per come viveva la vita. Da certi punti di vista era un esempio per tutti, anche se, come in tutte le famiglie, ci sono state anche situazioni di contrasto: la nostra famiglia è sempre stata molto religiosa e quando ad un certo punto lui ventenne si disinteressò alla cosa per la mamma fu doloroso. Più tardi però, l’unica vera preoccupazione che aveva la mamma era il fatto che avesse poca cura della sua salute. Noi eravamo giovani, ci sembrava impossibile l’idea di poter morire a quell’età, e quindi lo prendevamo in giro perché era diventato grassottello e certe volte gli faceva male il fegato; invece la mamma era davvero preoccupata.
Devo chiederglielo per forza. Ma non voglio chiederle cosa ci fosse realmente nel barattolo. Le chiedo soltanto: allora, da ragazzino, lei credeva veramente che dentro ci fosse merda d’artista? Non mi ero posto il problema, però ricordo un aneddoto divertente: Piero aveva finito da poco di fare questa serie e doveva sdebitarsi con un amico. Mi chiese un consiglio su cosa potesse regalargli: io gli consigliai di regalargli uno dei suoi barattoli. Lui allora mi disse: “Non si regala della merda a un amico!”.
Abbiamo poi posto quattro domande ai quattro nipoti di Piero. Ad ogni cugino le stesse, in una sorta di intervista quadrupla, per mettere a confronto i loro punti di vista.
Voi tutti avete in comune parte del patrimonio genetico con vostro zio Piero. Se voleste cercare in voi a livello professionale ma anche personale tracce dei geni comuni a quelli dello zio, in cosa li ritrovereste?
Valeria De Rege (figlia di Mariuccia, sorella maggiore di Piero, e sua prima nipote. Vive su un’isola del Canada ed è un’artista. Si chiama come la nonna Valeria, mamma di Piero) Non credo di assomigliargli molto, ma forse il mio figlio più grande ha un certo sguardo, un certo sorriso che gli assomigliano, e anche quell’aria un po’ birichina… Però anche io sono un’artista, dipingo, faccio mosaici. Inoltre, come lui ho sempre scelto ciò che mi diceva il cuore e ciò che mi pareva bello e giusto per me stessa. E nel fare questo mi è spesso toccato dare qualche dispiacere ai miei genitori, che forse avrebbero voluto che io facessi altro.
Antonietta Pasqualino di Marineo (figlia di Elena, seconda sorella maggiore di Piero, vive a Milano ed è una chef) Lui era particolarmente creativo e geniale. Cosa che non è che non rivedo in me, ma di certo non a quei livelli. Ora la cucina va molto di moda, ma io cucino da quando ero piccola e non l’ho mai vista come una forma di arte, piuttosto come qualcosa di più legato al fare, al materico, qualcosa da consumare. Amo molto l’aspetto del realizzare per poi consumare. Forse le cose in comune possono essere quelle educative e non genetiche: lui aveva ricevuto un certo tipo di educazione da nostra nonna che credo sia in parte quella che noi abbiamo ricevuto da nostra madre, legata al rispetto e alle regole della vita di tutti i giorni.
Antonio Manzoni di Chiosca (figlio di Giacomo, fratello minore di Piero. Vive a Torino ed è un ingegnere) Abbiamo studiato le stesse cose fino a un certo punto, poi lui si è diretto verso gli studi di giurisprudenza e io invece ho studiato ingegneria come mio padre e mio nonno materno. Io non sono per niente portato al disegno, mentre lo zio era bravissimo a disegnare: infatti le sue opere iniziali sono dei paesaggi, dei quadri anche molto accademici ma che dimostrano che era veramente molto bravo con il pennello in mano. Questo credo lo avesse preso da sua madre, la nonna Valeria che era veramente un’artista anche se non lo ha mai fatto per vivere. Sicuramente in comune con lui ho un fortissimo legame con la famiglia.
Luisa Manzoni di Chiosca (figlia di Giuseppe fratello più piccolo di Piero Manzoni, lavora in una casa editrice) Mi ha trasmesso la passione per l’arte, insieme a mio padre (storico dell’arte) a quella contemporanea in modo particolare. Inoltre ho ereditato alcune caratteristiche quali la cordialità, l’interesse per le persone, la capacità di instaurare rapporti con gli altri. E anche lo spirito di iniziativa. Tutte doti molto “manzoniane” e che mi sono molto utili nel mio lavoro, anzi, mi ci hanno condotto quasi spontaneamente.
Vorrei chiedere proprio a voi, che non lo avete vissuto direttamente, qualcosa sull’uomo Piero. Forse lo vedete circondato da un’aura diversa dai vostri genitori, quasi mistica. Però quest’aura può essere a volte alimentata o – al contrario – sdrammatizzata dai racconti familiari.
Valeria: I racconti di mio padre erano più che altro storie di fughe notturne di giovani che uscivano, andavano a bere, andavano al cinema e si divertivano. Però mi ha anche detto che nonostante la sua vita da artista, era molto legato alla famiglia ed era sempre presente in occasione di feste e ricorrenze. Io sono l’unica che Piero ha conosciuto tra tutti i miei cugini e mia madre mi ha raccontato che quando ero molto piccola, durante il mio primo Natale, lui era venuto a trovarmi ed era molto preoccupato che io cadessi perché cominciavo appena a camminare muovendo i primi passi. Evidentemente non era abituato ai bambini…
Antonietta:Ricordo in particolare di mia madre che mi raccontava che quando lo zio fece la performance sul “mangiare l’arte” con le uova sode, la nonna tornando a casa si era trovata questo conto di non so quante uova da pagare… e si era spaventata molto, però non per la spesa, ma perché lo zio aveva il colesterolo alto e avrebbe dovuto stare a dieta. Quindi era terrorizzata dall’idea che avesse potuto consumare 150 uova!
Antonio:Mia madre è molto più piccola di Piero e ha un unico ricordo. Essendo la più piccola del gruppo era sempre oggetto di scherzi da parte degli amici. E un’estate in cui giocando al mare in acqua hanno esagerato cercando di affogarla per scherzo lei si ricorda benissimo dello zio Piero che è intervenuto per fermare questo gioco stupido. Il ricordo di un uomo grande che è intervenuto per salvare una bimba.
Luisa:Negli anni in cui lo zio Piero dipingeva ancora sotto l’influsso degli Spazialisti e dei Nucleari, per un certo tempo utilizzò come atelier una vecchia cucina in disuso in un’ala poco usata dell’antica casa di famiglia Meroni. Mio padre allora frequentava la quarta elementare e spesso, con due amichetti, si avventurava a esplorare i più riposti locali di quella grande casa. Un giorno si sono trovati nel locale dove lo zio Piero dipingeva e con entusiasmo e incoscienza infantili si misero a giocare ai pittori, imbrattando dei fogli da disegno con i preziosi (e costosissimi) tubetti di colore professionali che avevano trovato. Quando lo zio Piero lo scoprì gli fece una lavata di capo memorabile: non aveva mai visto suo fratello così arrabbiato con lui, di solito nei suoi confronti era molto gentile e affettuoso.
Cosa pensate dell’arte di vostro zio? Vi piace?
Valeria: Mi piacciono gli achromes. Le tele grinzate che vedevo nel salotto di mia nonna… Sono ricordi di bambina, andavo in un luogo che per me era molto piacevole e vedevo queste opere bianche con solo qualche linea che suggeriva un pensiero, una sensazione. Il bianco crea spazio e senso di libertà.
Antonietta:Mi piace l’arte di mio zio, fa parte della mia vita totalmente. Fin da piccola ho sempre vissuto vedendo le sue opere attaccate alle pareti di casa della nonna. Quindi mi piacciono tutte, anche se poi ovviamente ce ne sono alcune che preferisco a livello estetico. Le tele grinzate e le grandi lane di vetro, ad esempio. Poi ci sono le cose più divertenti, come la Merda e il Fiato d’Artista, che sono più geniali ma meno belle a livello estetico.
Antonio:Mi piace decisamente la sua arte, sarà anche perché l’ho sempre vissuta come parte della famiglia e l’ho sempre vista in casa della nonna. Secondo me lui ha anticipato tutta l’arte moderna e dopo di lui c’è stato ben poco di nuovo. Mi è capitato di andare diverse volte ad Artissima, qui a Torino, vedere esposte delle opere e pensare “ecco, questo lo zio lo aveva già visto, lo aveva già fatto o lo aveva in qualche modo già intuito”. Sarò banale, ma mi piacciono gli achromes, le sue tele grinzate, che poi sono state l’apice della sua arte. Ce ne sono alcune meravigliose, quella che c’è alla GAM qui a Torino è bellissima.
Luisa:Pur studiando Scienze Politiche, avevo inserito l’esame di Storia dell’Arte nel piano di studi: ho così potuto provare il piacere e l’orgoglio di riscoprire criticamente quello zio che già conoscevo. Lo zio Piero è una figura centrale dell’arte contemporanea, con le sue opere propone interrogativi fondamentali e apre strade nuove, precorrendo di decenni gli sviluppi successivi: insomma, un genio assoluto. Le sue opere che preferisco sono gli achromes con i sassolini.
Concludendo in maniera un po’ scontata… ci provo anche con voi. Ditemi la verità. Cosa c’era veramente nelle scatolette?
Valeria: Non so cosa ci fosse nelle scatolette, ma se lo sapessi non lo direi. In fondo, cosa importa? Non lo so e non lo voglio sapere. Sapere rovinerebbe tutto.
Antonietta:Non lo so, veramente. Quando ero più piccola mi capitava che la nonna me le facesse spostare, ma essendo chiuse non si capiva cosa ci fosse dentro. E non credo sarebbe stata una buona idea aprirle. Una scatoletta di merda di artista non la avrei mai aperta!
Antonio:Io personalmente non ne ho idea, non ne ho mai neanche toccata una, le ho sempre viste esposte dentro delle bacheche. Immagino però che ci sia quello che ha dichiarato. Era una persona seria lo zio!
“Il Ciclo di Arhat“, a Palazzo Reale fino al 7 settembre, è la prima mostra di Takashi Murakami in uno spazio espositivo pubblico italiano. Si tratta di opere recenti di pittura e scultura di grandi dimensioni, che raccontano la svolta del celebrato artista nipponico, definito nel 2008 dalla rivista Time il più influente rappresentante della cultura giapponese contemporanea.
E se consideriamo il fatto che il baricentro dell’arte si è già da tempo spostato con decisione verso quel lato del mondo, non è certamente una definizione da poco.
E Murakami è fortemente giapponese: con la sua opera vuole nobilitare la cosiddetta subcultura Otaku (che si rifà al mondo dei manga, degli anime e dei videogames) e sottolinearne l’importanza in relazione al Giappone contemporaneo; e, al contempo, intende promuovere il valore di un’arte del Sol Levante completamente autonoma da influenze occidentali.
E ci riesce benissimo: l’unica influenza che l’occidente ha esercitato sull’artista è il suo modo di rapportarsi col marketing (le borse da lui disegnate per Vuitton ne sono l’emblema più significativo) e con l’organizzazione (che per certi versi ricorda la Factory di Warhol, per altri gli studios Disney) del proprio lavoro e di quello degli artisti con cui si relaziona.
Un Arhat, nel buddismo, è un essere che ha compiuto il medesimo percorso del Buddha ed è a un passo dall’illuminazione: gli Arhat diMurakami, di fronte all’ineluttabilità del fato, intendono aiutare gli uomini ad andare avanti dopo i recenti disastri di Fukushima e del terremoto e maremoto del Tōhoku del 2011. Tre dipinti enormi, di oltre 10 metri di lunghezza, e la grande scultura Oval Buddha Silver sono ospitati – per nulla casualmente – nella Sala delle Cariatidi.
La mostra è curata da Francesco Bonami, a cui abbiamo posto alcune domande.
Com’è possibile che un artista di fatto lowbrow riesca ad arrivare ad esporre al MOMA o alla reggia di Versailles? In cosa si differenzia da tanti altri e quali novità ha portato rispetto a molti suoi contemporanei e simili?
Come tutti i grandi artisti, Murakami ha inventato il suo linguaggio. E si tratta di un linguaggio molto particolare, perché è riuscito a integrare perfettamente la cultura giapponese contemporanea – che ormai tutti conosciamo – con i miti della cultura giapponese antica. Il sorprendente risultato è una forma di pop art nipponica assolutamente unica. Credo che questo sia un segno inconfondibile, un’unicità che lo rende molto attraente per i musei di tutto il mondo.
Nel mondo occidentale c’è qualcuno che riesca a fare questo? Portare avanti l’arte classica ma rendendola in chiave moderna come fa lui, senza maniera e senza citazionismo? Non mi viene in mente nessuno…
L’unico che può fare testo è Charles Ray, lo scultore di Los Angeles che divenne particolarmente noto da noi per aver messo ‘Il Ragazzo con la Rana’ sulla Punta della Dogana di Venezia. Incredibilmente, gli rimossero l’opera perché era troppo contemporanea. Ma è esattamente questa la sua ricerca: lui tenta di capire come sia possibile fare una scultura classica calata nell’epoca contemporanea. In effetti, però, dalle nostre parti questi casi sono rarissimi.Credo che sia in gran parte dovuto al fatto che l’Occidente, a differenza del Giappone, non abbia mai avuto quei momenti di chiusura e di forzata autoriflessione – spesso in seguito ad eventi disastrosi e drammatici come fu ad esempio la bomba atomica – che hanno letteralmente resettato un modo di pensare e di vivere secolare.Un processo fondamentale per poter costruire linguaggi nuovi, armonicamente correlati alla propria storia passata. Noi – in particolare noi italiani, peraltro – ci rapportiamo col nostro passato in modo troppo nostalgico. Murakami non ha alcuna nostalgia ed è quello che credo sia la sua grande forza. La nostalgia porta a volersi identificare con il passato, e non invece ad interpretarlo, rielaborarlo, ricostruirci sopra.
La scelta di porre opere che testimoniano disastri nella sala delle cariatidi di chi è stata? Mi pare una scelta simbolica, ricorda quella di Picasso con Guernica del 1953…
Effettivamente è una scelta di quel tipo. L’abbiamo pensato e ne abbiamo parlato con Murakami: non volevamo fare una retrospettiva, e volevamo invece fare qualcosa di fortemente simbolico proprio in questo spazio. Glielo abbiamo mostrato, e lui ne è rimasto molto impressionato.Gli era piaciuta molto anche la biblioteca Ambrosiana, ma la Sala delle Cariatidi sembra fatta apposta per il discorso dell’artista: è uno spazio che rimase vittima di un incendio causato dai bombardamenti che ne distrussero il tetto e il pavimento di legno, è rimasto a lungo senza copertura, e gli agenti atmosferici hanno poi completato la distruzione.Un po’ quello di cui parlano le recenti opere di Murakami, della follia umana e della forza incontenibile della natura. Credo quindi che questi lavori, collocati in questo posto, assumano una forza particolare, superiore.
Secondo lei possiamo definire queste grandi opere di Murakami come un esempio di moderna arte sacra?
Direi assolutamente di sì. L’arte religiosa nasce per confrontarsi con i misteri del nostro mondo. Lui prima faceva un’arte molto leggera, piatta e “superficiale”, che lui stesso chiamava “superflat”, ovvero superpiatta; adesso, invece, ha creato un’arte molto profonda perché generata da una riflessione sulla realtà e sui disastri che hanno colpito la sua società e anche lui personalmente: Murakami viveva a Tokyo con la sua famiglia, e ha deciso di trasferirsi a Kyoto per evitare al figlio le possibili conseguenze delle radiazioni.Credo che abbia sentito veramente e profondamente, come tutti i giapponesi, il senso dell’ineluttabilità del destino. Per questo ha dovuto necessariamente cambiare approccio con la propria espressione, e di conseguenza anche stile. E questa nuova arte di Murakami è decisamente un’arte religiosa.
A Torino, a Palazzo Cavour fino all’11 gennaio 2015 , è allestita la mostra “Shit And Die”. Con questa mostra il curatore Cattelan riesce effettivamente a prendere il sopravvento sull’artista Cattelan. E questa affermazione serve per fare ammenda: chi scrive ha avuto difficoltà – a livello personale – a scindere le due cose (difficoltà espressa dallo stesso Maurizio Cattelan nell’ intervista che seguirà); ma non è difficile ammettere i propri torti di fronte all’evidenza. Ripensata, e quindi inevitabilmente rivisitata, la mostra rende certamente piena giustizia agli artisti esposti, e di conseguenza ai curatori tutti, ovvero Cattelan e le giovani Myriam Ben Salah e Marta Papini.
Il titolo della mostra – preso in prestito da un famoso slogan al neon di Bruce Nauman – allude, nel contesto, al presupposto “vizietto” di Cavour, che si dice amasse pasteggiare con le proprie deiezioni. E il tema dell’ineluttabilità del tempo che scorre e di cui le uniche certezze della vita paiono essere quelle del titolo è effettivamente ricorrente nel corso dell’intera mostra.
Un approccio non già pessimista, ma malinconicamente realista: la stessa sensazione evocata, nella terza sala, dall’allestimento di una serie di mobili dei torinesissimi Gabetti & Isola e destinati agli utopistici villaggi Olivetti, dal design estremamente funzionalista.
Una mostra dedicata a Torino, e quindi torinocentrica, ma che attraverso la città racconta quindi altro; e racconta anche “altrove”, come fa Pascale Marthine Thayou – artista camerunense che vive in Belgio – che recupera al mercato di Porta Palazzo oggetti ricollegabili alla propria cultura di origine, creando con essi un ambiente realmente globale. O come, in senso inverso, fa Stelios Faitakis, artista greco che glorifica Torino ricreando significative scene della storia cittadina come fossero icone (neo)bizantine.
Notevoli sono i “prestiti” alla mostra di importanti musei torinesi che alla morte (e alla vita!) sono in qualche modo dedicati: dalla forca dei condannati a impiccagione (e i vasi che i detenuti non ancora impiccati dipingevano mentre vi assistevano, certamente “shitting themselves”) del Museo Lombroso di Antropologia Criminale, allo scheletro di Carlo Giacomini, già direttore del Museo di Anatomia Umana (a cui donò il proprio corpo), che qui a Palazzo Cavour vigila nella sala dei ritratti dedicati ai torinesi illustri.
Il percorso della mostra si compie nelle due sale finali: dapprima lo studio del Conte di Cavour, incellofanato, che voci di corridoio ci dicono ricordi in effetti le precauzioni adottate durante lo svolgimento di certe pratiche (sebbene noi si voglia leggere diversamente l’installazione…), completo di foto del sommo Tolouse-Lautrec intento a fare la cacca: a ricordarci che la fanno proprio tutti. Ed infine, un’automobile che, con lo scorrere del tempo (e i metronomi a rendere questo scorrere sensibile), si accartoccia su sé stessa. E, devo dire, rende il senso dell’ineluttabilità palpabile e angosciante.
Ammetto di avere difficoltà, nel guardare una mostra curata da un artista influente e di personalità quale lei è, a non vedere la mostra stessa come un’opera a sua volta. Cosa posso fare per liberarmi da questo preconcetto? La mostra è frutto di un lavoro di squadra con Myriam e Marta, l’abbiamo ideata e costruita insieme, a sei mani e tre teste. Se non bastasse questo, a Palazzo Cavour ci sono opere di oltre sessanta artisti, molti più bravi di me. Alla fine funziona un po’ come un tumblr: noi ci siamo limitati a scegliere le opere e a metterle in relazione nello spazio, dando vita a nuove associazioni visive.
Guardando ai tanti aspetti di Torino, che qui sono ben rappresentati, dubito che quello a cui lei si senta più vicino sia quello operaio – un mestiere che ha fatto, ma sappiamo che “Lavorare è un Brutto Mestiere”. Quale ritiene sia l’aspetto della città a lei più prossimo, e cosa pensa di Torino in particolare soprattutto dopo aver lavorato a questa mostra? A volte la cosa migliore che ti possa accadere è un disastro, è questo il genere di potenziale che mi sembra di intravedere per Torino. È orfana prima del regno e poi dell’industria, ma può produrre ancora molto in termini di avanguardie culturali. L’energia produttiva del passato può essere trasformata, e mi sembra di vedere in certe manifestazioni, come Artissima o il Club to Club, questa volontà di reinventarsi. È una scommessa: ha così tanto da perdere che può vincere.
Shit and die. Il titolo della mostra implica una vita in cui valga ancora la pena sperare? (dalla famosa frase “chi visse sperando morì cagando”) La speranza è un concetto che non mi appartiene, credo piuttosto che sia la volontà l’elemento indispensabile. Certo, tutti moriremo, ma nel frattempo ognuno dovrebbe cercare di far sì che il proprio tempo sia impiegato al meglio. Negli anni mi sono convinto che impegnarsi a raggiungere i propri obiettivi o a non raggiungerli richieda lo stesso sforzo.
Art Basel è una delle più importanti fiere di arte moderna e contemporanea al mondo. Si svolge ogni anno, in tre distinti appuntamenti, a Basilea, a Miami Beach e ad Hong Kong. A Miami Beach sono 267 le gallerie presenti, provenienti da 31 paesi.
Riviviamo la fiera di quest’anno attraverso 10 artisti:
NATHALIE DJURBERG, videoartista e scultrice svedese già vincitrice di un Leone alla Biennale di Venezia del 2009 (per i film in stop-motion prodotti con Hans Berg) propone presso lo stand di Galleria Marconi alcune sue recenti opere, ovvero dei Donut di gommapiuma, sculture-poltrone la cui forma circolare richiama un concetto ricorrente nelle installazioni dell’artista, a richiamare la forma essenziale del cosmo.
GÉZA SZÖLLŐSI, artista ungherese, è presente allo stand di NextArt Galeria con una delle sue facce animali gonfiate, realizzate con reali teste di animali morti e trattate tramite tassidermia. Profondamente unpop, eccessivo, spesso accostato idealmente in questo ad artisti quali Jake and Dinos Chapman, Jeff Koons o Cindy Sherman – coi quali ha anche esposto – è anche fotografo e grafico. Certamente i lavori basati sulla tassidermia o sulla carne animale sono i più scioccanti (e c’è da dire che quello qui presente è uno di quelli più “delicati”), ma probabilmente – e forse anche grazie a questo – i più efficaci.
ERNESTO NETO, artista brasiliano, con “Nós Sonhando [Spacebodyship]”, installata a Collins Park, invita il visitatore a riposare il suo corpo, ed implicitamente – attraverso il titolo dell’opera – a far sì che questo riposo possa essere preludio a un viaggio onirico che certamente garantirà una più profonda fruizione dell’opera stessa, come di ogni opera presente. Fa parte di una serie di 26 installazioni site-specific di svariati artisti per il parco, che sviluppano il concetto di sperimentazione.
ROBERT WILSON, definito “il più grande artista teatrale d’avanguardia”, è senza dubbio artista totale: scultore, pittore, coreografo, sound e light designer, performer, video artista, regista e drammaturgo. La galleria Thomas Schulte porta a Miami tre videoinstallazioni – già presentate al Louvre un anno fa – in cui Lady Gaga è la musa che reinterpreta alcuni importanti quadri del passato, tra cui spiccano quelli dei neoclassici Ingres e David.
SALLY MANN è presente con una delle sue fotografie più famose: “Candy Cigarette”, in cui la figlia Jessie appare sospesa in un frammento di tempo irreale, come distratta dalle sue attività infantili, con in mano una caramella a forma di sigaretta: una sorta di rivisitazione di una donna vissuta in chiave infantile, in cui la forza paradossale è notevole. La stampa, una silver print facente parte di una serie limitata a 25 ed esaurita, è della Edwynn Houk Gallery.
PETER MARINO, archistar che ha rivoluzionato il concetto della boutique di lusso, è “presente” più che mai, quasi in carne ed ossa, al Bass Museum. Certamente è presente una delle sue mise di cuoio nero, indossata da una sua riproduzione iperrealista che invita irresistibilmente al selfie. È esposta parte della sua collezione privata di opere d’arte: artisti quali il nostro Rudolf Stingel, Dan Colen, Christopher Wool, e ancora Anself Kiefer, Georg Baselitz, Robert Mapplethorpe.
OS GEMEOS, graffiti artists brasiliani e gemelli monozigoti (da cui il nome), espongono un’opera “Untitled” allo stand di Lehmann Maupin. Da una tavola di 254 x 330 x 16 cm pare fuoriuscire un personaggio dalla pelle gialla – caratteristica ricorrente nei lavori del duo, che afferma che fosse il colore abituale dei sogni di entrambi. Certamente, il giallo e in generale i colori utilizzati da Os Gemeos sottolineano una forte identificazione con la loro terra.
HANDIEDAN, artista olandese, realizza elaborati collage tridimensionali a bassorilievo, con un meticoloso lavoro sui vari layer, in cui combina sfondi vittoriani, barocchi, neoclassici con elementi quali antiche stampe, banconote, carte da gioco, carta da musica e ponendo al centro del soggetto figure di classiche pin-up o anche machi sempre rigorosamente d’epoca. Estetica, simbolismo e forza figurativa per la artista di Hashimoto Contemporary.
GUNILLA KLINGBERG lascia il segno – è il caso di dirlo – con l’ennesima declinazione del suo “A Sign In Space”: una sorta di rullo compressore rivestito di parti di pneumatico giustapposte a formare un disegno geometrico passa, ogni mattina, sulla spiaggia di Miami. Formando un pattern che gli eventi naturali ed umani gradualmente cancelleranno nel corso della giornata. Come un mandala, a ricordare l’apparente paradosso dell’eternità nell’effimero.
THEO JANSEN rende a sua volta protagonista la spiaggia di Miami Beach popolandola con le sue Strandbeesten (lett. “animali da spiaggia” in olandese), sorta di giganteschi “insetti” semoventi e addirittura dotati di abilità percettive, memoria e omeostasi. «i confini tra arte e ingegneria esistono solo nelle nostre menti», dice Janssen, e a ragione: non a caso viene naturale pensare all’approccio di Leonardo. E nel frattempo, alla Scope, Maya Polsky Gallery espone le foto fatte da LENA HERZOG alle bestie di Jansen.
Biennale 2015: si parte! Dal 6 all’8 maggio le tre giornate di inaugurazione della 56^ Esposizione d’Arte di Venezia dedicate alla stampa e agli operatori del settore.
L'inviata di ArtsLife, Clelia Patella, vi propone di seguito 5 artisti per cinque opere in anteprima:
1. Il Raques Media Collective, trio di artisti multimediale indiano, ha allestito all’ingresso dei Giardini un’opera in cui una statua raffigurante un Papa (senza volto) è posta su un piedistallo ai cui fianchi appaiono le scritte “But he did not want to shoot the elephant” e ” And then down he came, with a crash that seemed to shake the ground” . Le due frasi sintetizzano in maniera estrema il racconto/saggio orwelliano “Shooting an Elephant” in cui il narratore si ritrova costretto suo malgrado, in India, ad uccidere un elefante fuori controllo, perchè richiesto dal suo ruolo di poliziotto coloniale inglese. Tale metafora dell’imperialismo britannico – tematica particolarmente sentita da Raques per questioni storico e culturali, pare voler porre un pontefice senza viso (e quindi personalità, di cui rimane il ruolo e la figura simbolica) nei panni del poliziotto, le cui remore morali, laddove ci siano, non cambiano il proprio ed altrui destino.
2. Andreas Gursky è un fotografo tedesco balzato agli onori della cronaca quando, nel 2011, la stampa della sua fotografia “Rhein II” venne battuta da Christie’s per 4,3 milioni di dollari, diventando la fotografia più costosa mai venduta. Gursky ritrae “paesaggi” in grande formato, dai colori generalmente molto vivaci, raffigurando grandi palazzi ed edifici, luoghi dall’ordine caotico (come i supermercati), sale di contrattazione finanziaria particolarmente affollate. Il tema centrale è quello della globalizzazione, espresso senza alcun giudizio né messaggio morale, ma immortalato per consentire una riflessione completamente soggettiva da parte dell’osservatore. Fotodocumentari, quindi, quasi nature morte, in cui alla monumentalità dello scatto e di quanto impresso si contrappone la maniacalità verso l’attenzione al particolare minuzioso.
3. Adrian Piper, artista concettuale statunitense che vive a Berlino la cui opera rivolge la propria attenzione a tematiche quali razzismo, sessismo e “l’altro, il diverso” in generale, espone quattro lavagne scolastiche con scritta a mano – venticinque volte su ognuna – la frase “Everything will be taken away”.
La sensazione è quella di un monito espresso tramite una forma che rievoca in maniera forte e immediata il senso della punizione e della frustrazione o più precisamente dell’ineluttabilità. La solidità dell’ardesia garantisce alla volatilità del gesso una sorta di “relativa eternità” che resterà tale fino al momento in cui la polvere – di gesso, e non solo – verrà resa alla polvere.
4. Bruce Nauman, scultore, fotografo e artista multimediale statunitense, è presente alla Biennale (dove nel 1999 vinse il Leone d’Oro) con l’opera “American Violence”, uno dei suoi “neon”, creato tra il 1981 e il 1982, nel pieno del periodo in cui l’opera dell’artista – considerato uno dei padri dell’arte concettuale americana – assume connotazioni politiche più dirette e definite: sono di questo periodo opere in cui i temi sono la violenza e la tortura dei regimi totalitari, ed in seguito le connessioni tra sesso, morte e violenza, come espresso da questa installazione, la cui forma richiama in maniera abbastanza evidente una svastica in cui i quattro bracci uncinati paiono “cantare”, urlandole, le quattro linee di ritornello di una lirica che ricorrono ciclicamente, e che sinesteticamente evocano un brano synthpop, seppur più unpop che non popolare.
5. Kutluğ Ataman, filmmaker e artista di origine turca, pone la sua attenzione nel documentare le vite degli individui, spesso di quelli ai margini, testimoniando – a cavallo tra realtà e fiction – quali possano essere i meccanismi evolutivi delle identità delle persone. L’opera “The Portrait of Sakip Sabanci” (2014), da lui portata alla Biennale, intende rendere testimonianza della vita dell’uomo d’affari e filantropo turco Sakip Sabanci, morto nel 2004, tramite quasi diecimila schermi LCD ognuno raffigurante una persona che ha avuto in qualche modo occasione di incrociare il proprio percorso con il businessman. Collaboratori, familiari, sostenitori, tutti paiono voler essere presenti nell’onorare la memoria di Sabanci, la cui attenzione verso il prossimo è la chiave di lettura per cui un suo ritratto sia composto dalla presenza di ognuna di queste persone.
SisalPay si fa promotrice di un’iniziativa d’eccezione, sostenendo, al Museo del Novecento di Milano, l’arrivo delle due ultime collezioni “Un Museo Ideale. Ospiti d’eccezione nelle Collezioni del Novecento dal Futurismo al Contemporaneo” e “Nuovi Arrivi. Opere della donazione Bianca e Mario Bertolini”. Un impegno che sarà corollato da tre serate con guide di grande prestigio: Vittorio Sgarbi, Luca Beatrice e Philippe Daverio, la cui serata il prossimo 22 settembre sarà per tutta la cittadinanza. L’iniziativa si inserisce nel programma espositivo che il Museo del Novecento ha ideato in occasione di Expo 2015.
I capolavori donati da Mario Bertolini arricchiscono il patrimonio del museo di oltre 600 opere realizzate dai protagonisti dell’arte italiana e internazionale del secolo scorso, e la mostra “Nuovi Arrivi” ricostruisce, in una selezione di circa cento opere, i capitoli fondamentali della raccolta, con opere che da Balla portano a Warhol e Schifano, all’arte concettuale americana ed europea, a Christo, Acconci, LeWitt, ai neoespressionisti tedeschi e austriaci, per concludere il percorso con una grande Rosa Bianca di Kounellis, che costituisce così un importante contraltare alla Rosa Nera già presente nella collezione permanente del museo.
“Un Museo Ideale”, invece, arricchisce le collezioni del museo con opere provenienti dalle istituzioni museali italiane, a costituire insieme alle opere permanenti un percorso comune che racconti il patrimonio artistico italiano del secolo scorso. Un invito esteso al pubblico sui Social Network con l’Instagram Challenge #MuseoIdeale, una call dedicata a tutti gli appassionati di arte e fotografia, supportata da un sito (www.museoideale.it) che ospita la raccolta delle immagini condivise dalla community, trasformando “Un Museo Ideale” in un museo aperto a tutti.
Maurizio Santacroce, Direttore Payments and Services di Sisal Group, ci dice:
“Da alcuni anni nell’ambito del nostro programma di responsabilità sociale d’impresa stiamo investendo per sostenere l’arte, la cultura e il talento. Quest’anno ci ha molto colpito l’iniziativa di questi percorsi espositivi del Museo del Novecento in concomitanza con Expo: ci è sembrata una notevole valorizzazione della cultura italiana, ed essendo la nostra una realtà fortemente italiana abbiamo aderito al progetto, che pensiamo ci abbia permesso di dare un contributo particolare anche alla città di Milano.
Crediamo molto nel sostegno all’arte. Personalmente, sono molto contento di quanto fatto finora in questo contesto, che ci ha consentito di accompagnare la città per sei mesi e che ci ha portato a vivere serate come questa curata da Vittorio Sgarbi, che ha un sapore particolare e da grande soddisfazione.”
Nell’occasione della prima serata guidata abbiamo rivolto alcune domande a Vittorio Sgarbi.
Come spesso capita, grazie a privati che peraltro si occupano di tutt’altro, è possibile realizzare iniziative come questa. Le istituzioni tendono ad essere carenti, questo non è un bene. Ci potrà essere un’inversione di tendenza?
SisalPay è un Istituto di Pagamento privato, parte di un grande Gruppo (la Sisal) concessionario dello Stato, che produce dei profitti attraverso dei servizi di pagamento, e che ha decide di indirizzare parte dei propri investimenti all’attività di restauro e promozione di mostre. Chiaramente, ricevendo tramite un gesto apprezzabile com’è quello della promozione della cultura, il vantaggio di far ulteriormente conoscere la propria esistenza ed alcuni aspetti della propria attività. Io, per esempio, non sapevo che Sisalpay consente di pagare bollette, tasse e multe in tabaccheria o negozio. Nell’azione di sponsorizzazione, quindi, c’è anche un’implicita promozione dell’istituto.
E le istituzioni pubbliche?
Le istituzioni pubbliche hanno un problema più grave. Il taglio della spesa pubblica non dovrebbe voler dire solo spendere di meno, ma spendere meglio: indirizzando meglio la spesa si potrebbe spendere la metà di quello che effettivamente spende l’Amministrazione, con maggiori risultati. Il problema del Pubblico è perciò la dispersione di energie in spese senza senso. Molti interventi pubblici, a partire dall’esempio della stessa Regione Lombardia, che aveva una sede perfetta al Pirellone ma ha voluto ugualmente realizzare la propria Nuova Sede, si concretizzano in soldi che vengono spesi per una iniziativa di lavori nominalmente pubblici che, però, non hanno alcun interesse per il pubblico. Abbiamo una spesa pubblica eccessiva per obiettivi sbagliati. Non serve spendere un po’ di meno dappertutto, ma occorre spendere rinunciando ad opere inutili, indirizzando il denaro laddove è utile, compresa ovviamente la promozione della cultura.
Altrettanto notevole è l’importanza della presenza in Italia di persone come i Bertolini, che decidono di donare al museo – e quindi a tutti – collezioni di importanza rilevante come questa..
Quella dei Bertolini è una donazione molto di nicchia che ha un interesse generale più legato alla specialità e all’attenzione per l’arte contemporanea. È una collezione sinceramente amatoriale, quasi un archivio, perché hanno comperato soprattutto opere su carta. La donazione è una delle anime viventi dei musei: i musei vivono di donazioni e molto spesso sono costitutiti da collezioni private. Il fatto che oggi si continui a fare quello che è sempre stato fatto nel passato, come per esempio per l’Accademia Carrara o per il Poldi Pezzoli, è la prova del fatto che esiste un Privato virtuoso il cui collezionismo non è legato al danaro, ma a una concezione di condivisione. Questo porta naturalmente il privato a donare quanto raccolto spendendo soldi propri per permettere alla gente di visitare la propria collezione e condividere la propria visione dell’arte.
I Bertolini sono stati una famiglia legata all’arte ma anche al proprio territorio: Araldo, il padre di Mario Bertolini, fu ispettore onorario delle Belle arti e direttore del Museo camuno. E infatti, inizialmente, la Fondazione aveva cercato di collocare le opere in Valcamonica, ma non è stato trovato un posto adeguato e la collezione è arrivata a Milano. Cosa pensa di questo fatto?
Penso che sarebbe stato un errore. In Valcamonica un collezionismo così sofisticato – e anche snob, perché porta con sé una serie di questioni legate non alla comune idea di arte, ma a un’idea di arte legata alla sensibilità del nostro tempo – sarebbe probabilmente rimasto confinato in una sorta di cimitero, con le opere appese ai muri senza che nessuno le vedesse. Invece, non c’è destinazione più pertinente del museo del Novecento a Milano: è un’ istituzione universale nella città giusta. Questa collezione in terra camuna avrebbe costituito una bizzarria, una curiosità che pure era legata a persone sensibili, qui diventa organica a una visione. È stata una fortuna che l’abbiano rifiutata in Valcamonica, perchè sarebbe rimasta in qualche modo inevasa, l’avrebbero visitata solo pochissimi bizzarri curiosi. Al museo del Novecento, invece, chi viene a vederla la trova nel contesto giusto, insieme alla collezione di Claudia Gian Ferrari, nell’ambito del mondo a cui quelle opere appartengono.
Parlando del “Museo Ideale”, qual è il suo punto di vista su questo genere di iniziativa? Le sembra positiva e sensata? Magari auspicabile anche in situazioni diverse legate ad altri musei?
È una giusta iniziativa: portare quadri di un museo in un altro museo è una pratica comune, e qui l’hanno realizzata addirittura moltiplicandola per dieci.
Che una sola opera venga da un’altro museo è cosa giusta; che in un museo ne vengano dieci da altrettanti musei è cosa ancora più giusta; che poi queste dieci opere siano contestuali alle diverse aree del museo, per cui tu hai un dipinto metafisico o un dipinto di Casorati nel luogo dove ci sono i quadri degli stessi autori e degli stessi movimenti dentro il museo, è veramente notevole. Credo però che il titolo possa creare un equivoco: si pensa ad un “museo ideale” come ad un qualcosa che non c’è, qualcosa di virtuale, mentre questa è una mostra assolutamente reale, che semplicemente configura l’ipotesi di un museo stabilmente realizzabile.
Nuovo appuntamento a cura di Sisalpay (clicca qui per il precedente) al Museo del Novecento, corollato dalla lectio magistralis di Philippe Daverio, direttamente dal balcone del museo che affaccia sulla piazza del Duomo.
Trasmessa anche da un maxi schermo allestito per l’occasione, la lezione – dal titolo di “Grandezza e miserie della vita novecentesca” – è stata seguita da 3.000 persone che hanno poi potuto accedere al museo, aperto eccezionalmente per la serata.
L’iniziativa è stata un successo, oltre 2.000 persone hanno utilizzato l’ingresso notturno gratuito per visitare il Museo.
Abbiamo rivolto a Philippe Daverio alcune domande.
Il titolo della mostra che è stata fatta qui al museo del 900 mi ha subito evocato i suoi libri, in particolare il “Museo Immaginato”. Quanto si avvicina alla sua idea?
Il tentativo di mettere insieme degli elementi per raccontare una storia è fondamentale. Un museo deve raccontare una storia, e purtroppo molto spesso i musei non ci riescono. Oppure raccontano storie che capiscono solo i curatori, che relazionandosi costantemente con quelle opere riescono ovviamente ad inventare una storia, ma il fatto che il pubblico che interviene sia in grado di percepirla è tutt’altra cosa. Tutto il lavoro della museologia sta in questo: riuscire a trasformare il materiale a disposizione non in una sola, ma in svariate storie che possano essere lette da svariate teste. È un concetto molto americano, con un racconto che sia al contempo high & low, che risvegli la curiosità nella persona informata e operi un coinvolgimento anche nella persona che è appena arrivata lì. Non è mica facile.
Perciò la storia da raccontare è fondamentale…
Assolutamente sì: le opere devono raccontare la storia. Nei musei italiani lo si fa poco, e se una persona senza l’adeguato training va agli Uffizi non riesce a capirli.
La narrazione avviene a seconda di come si pensa la mostra. Noi abbiamo ancora molto l’abitudine di considerare il museo una sorta di teca di conservazione che esiste perchè serve a tenere le cose, quasi come fosse un armadio. Il museo deve essere questo, ma deve anche e soprattutto essere altro; e dovrebbe inoltre essere in grado di generare eventi regolari in modo da creare con il pubblico una sorta di long term relationship: ovvero, io ci vado regolarmente, per me è una bella abitudine, ci vado e ci torno perchè l’ho visto e mi piace.
Quando io inventai Palazzo Reale lo feci con queste premesse. Purtroppo, i miei successori non hanno più fatto passi in avanti. Non si dovrebbe andare a vedere una mostra ogni tanto, ma poterci tornare per rivedere le stesse cose e di volta in volta qualcosa di nuovo, perché è arrivato qualcosa di collegato. Un po’ quello che è successo qui con la donazione dei Bertolini.
Quindi ritiene che iniziative come questa di Sisalpay siano importanti?
Hanno un’enorme utilità. Perché è comunicazione: non è detto che tutti gli ospiti invitati questa sera siano già stati qui, come non è detto che tutti ci vengano regolarmente. Ecco perché un’altra cosa importante è che una struttura come questo museo abbia una serie di meccaniche di animazione regolare. E non solo il privato, come SisalPay, ma soprattutto il museo stesso deve proporre iniziative come questa, e deve essere in grado di trovare esso stesso gli sponsor. Questa sera SisalPay ha fatto un gesto apprezzabile, ma normale, non incredibile, se lo compariamo con quanto succede altrove: a Monaco, a Berlino, a Parigi succede regolarmente che un gruppo privato, nelle operazioni delegate all’immagine dell’azienda, si interessi a un fatto museale. Ma ribadisco, dall’altra parte, quella ufficiale, ci dovrebbe sempre essere il museo che operi in questo senso di norma.
Io mi sono molto occupato di questo argomento, ed è quello che poi mi ha spinto a lavorare su Milano. Ad esempio, i musei di Chicago hanno un fundraising office con 160 dipendenti e all’epoca in cui io ci ho lavorato recuperavano 60 milioni di dollari all’anno! Questo accadeva perché 160 persone ogni mattina andavano a fare quel mestiere, e seppure fossero in concorrenza con altre 100 persone che facevano lo stesso lavoro per l’università, riuscivano nell’intento.
Perché in Italia non lo si fa?
Certo, anche in Italia alcuni si impegnano nella raccolta fondi. Lo fa la chiesa, lo fa il volontariato. Anche in Italia lo sappiamo fare, anzi, siamo stati noi ad inventarlo. Il primo fundraising dell’Occidente, della storia dell’umanità, è stato fatto a Milano nel 1451: la Festa del Perdono per la costruzione della Cà Granda.
Non è vero che sono cose in cui non siamo competenti. È che noi siamo lentamente implosi, e rispetto al resto delle comunità d’Occidente non abbiamo più capito niente. Di chi sia la colpa non lo so, non è mai colpa di nessuno ed al contempo è colpa di tutti. Certo, l’Italia politica non ha questi problemi, se ne frega. L’Italia privata invece lo fa in altri settori: lo fa nel campo della medicina, della sanità, quelli della Lega per la lotta ai tumori o a qualsiasi altra grave malattia; lo fa nel volontariato, lo fa per il terzo mondo… Il fatto è che in quei casi lo si fa in ambiti di autonomie di libertà. Invece, in quest’altro ambito non lo si fa perché la controparte è lo Stato o il Comune. Se noi domani facciamo un committee per la salvaguardia di Palazzo Reale, l’Assessore si offende. La politica dovrebbe intraprendere decisamente una strada e imporla, ma non succede mai. Io, per salvarmi la coscienza, sono riuscito per almeno due volte a fare delle innovazioni giuridiche che sono poi diventate stabili. Nel ’94, ho inventato le fondazioni per i teatri d’opera: all’epoca avevo la responsabilità del Teatro alla Scala e in quel periodo c’era stato un grande taglio dei finanziamenti pubblici. Feci una riunione coi 13 sindaci delle città dei teatri d’opera e col Ministro dei Beni Culturali e gli dissi che avevo la soluzione, ed in seguito con la Finanziaria venne approvata la mia proposta. Queste fondazioni esistono tuttora, anche se funzionano ancora male. Poi ho inventato i co.co.co., perché mi stavano per chiudere le scuole milanesi; feci una riunione con tutti i sindacati, e riuscimmo a risolvere la situazione. Quindi ci sono delle cose che si possono fare.
Qual è lo stato dell’Arte a Milano?
A Milano c’è un dato nuovo, oggettivo, che è dovuto alla competizione delle fondazioni private, che stanno dandosi un po’ da fare con passione e ingenuità al contempo. Miuccia Prada ci mette tutta la sua passione, ma poi capita che lasci gestire le cose a persone sbagliate. I Bertelli sono molto orientati sul trendy: a me piace molto, ma questo dovrebbe essere gestito da persone più adeguate.
Qual è l’ostacolo alla reale fattibilità di un museo ideale?
Un museo non si fa in un quarto d’ora, si fa con un piano ventennale andando ad investire in aree dove gli altri non hanno investito; si fa con l’abilità delle direzioni, si fa con la capacità di attrarre le donazioni. A Milano ci sono almeno trenta persone che sarebbero onorate di cedere qualcosa, se in cambio avessero l’onore della cessione. Però per ottenere questo risultato ci vuole qualcuno in grado di farlo… Kirk Varnedoe è stato per anni il boss del Moma, era uno di ottima famiglia, arrivava con una moto di una grossa cilindrata, abbronzato e fico e portava fuori le signore a cena e le conosceva tutte. Ci vogliono le persone giuste. In Italia manca la formazione: infatti l’unica cosa che mi pento di non aver fatto negli anni passati, quando ero a capo delle scuole comunali milanesi, è stato riuscire a fare una scuola di formazione per amministratori civici.
Il nostro sistema culturale è conseguenza anche della fragilità di chi è stato inserito. Adesso il povero Ministro Franceschini è caduto nella trappola di prendere sul mercato internazionale dei direttori di musei impreparati a rapportarsi con la realtà italiana. Certo, le risorse interne non sono eccezionali, ma pur sempre più adeguate alla nostra situazione.
Certo, se penso a che cos’era la generazione precedente alla mia… Quelli un po’ più vecchi di me nell’ambito ministeriale erano dei califfi, Carlo Bertelli era un intellettuale rispettato. Nicola Spinosa mi portò a fare il primo convegno a 27 anni alla Yale University… Penso poi a Emiliani a Bologna, ad Antonio Paolucci che poi ha anche fatto il Ministro del Beni Culturali… Ciò che è venuto dopo è colpa di una gestione fragile. Quelli che hanno preso ora erano quelli disponibili sul mercato e che non avevano nulla da fare. Li conosco, brava gente che in un ufficio con tante persone avrebbero senza dubbio un ruolo da svolgere, se avessero un capo.
Terzo ed ultimo appuntamento a cura di Sisalpay (clicca qui e qui per i precedenti) al Museo del Novecento: dopo le visite guidate da altri ospiti d’eccezione quali Vittorio Sgarbi e Philippe Daverio, tocca ora a Luca Beatrice chiudere questo ciclo, illustrando – oltre alle nuove collezioni pervenute – un percorso lungo il museo tutto.
Come nelle precedenti occasioni, anche a lui abbiamo rivolto alcune domande.
Nelle precedenti occasioni, prima con Vittorio Sgarbi e poi con Philippe Daverio, ho avuto modo di chiedere un’opinione riguardo all’apporto dei privati – collezionisti come i Bertolini, che offrono il proprio patrimonio artistico, o società come SisalPay che supportano i costi di un’operazione come questa – nei confronti della realtà museale italiana. Il solo fatto che questo debba diventare argomento di discussione è indice di qualcosa, senza dubbio. E la prima cosa che può venire in mente è la scarsa presenza delle istituzioni…
Non sono d’accordo: in realtà, da questo punto di vista, l’Italia è assolutamente un paese di grandi istituzioni. Da noi la cultura è stata, fino a non molto tempo fa, totalmente a carico del pubblico, e quindi dei contribuenti. La sensibilità di avvicinare i privati a questa realtà è un fenomeno recente, simile per certi versi a quanto già in voga negli Stati Uniti, ma su cui da noi c’è certamente ancora molto da lavorare. Però non dimentichiamoci del fatto che se in Italia si può parlare di cultura è perchè esiste davvero una fortissima struttura pubblica, che è stata finora la forza del nostro paese. Vedremo se i privati saranno in grado di intervenire in modo massiccio con operazioni qualitativamente e quantitativamente di livello. Questa iniziativa di SisalPay è molto positiva, perché l’azienda – come capita anche per alcune altre – si pone, in relazione all’arte, in maniera diversa e superiore rispetto alla figura del classico mecenate, permettendo così uno sviluppo dinamico della cultura che fino ad oggi era stato un po’ sacrificato.
Per un totale profano del 2015 credi sia più importante ed utile un primo approccio all’arte qui, al Museo del Novecento, o piuttosto in un’altra sede, al cospetto dei grandi Classici, magari rinascimentali?
Io penso che le occasioni possano essere molteplici. Non credo ci sia un posto giusto per andare a imparare l’arte. Certo è che se ci fosse da parte del pubblico una più spiccata abitudine a recarsi in luoghi come il Museo del Novecento, o come le grandi collezioni di arte contemporanea, si svilupperebbe probabilmente una mentalità meno conservatrice che non debba sempre rivolgersi al paracadute del Classico.
Ma per chi proprio non si è mai avvicinato all’arte, non è forse più semplice vedere un quadro agli Uffizi che non capire un’opera di Koons? Oppure, al contrario, l’arte contemporanea è più segno dei tempi, e quindi più vicina al nostro sentire?
Io penso che l’iPhone sia lo strumento elettronico più facile da utilizzare: non ha neanche il libretto di istruzioni. Invece il vecchio Nokia conteneva un libro di quaranta pagine, nonostante fosse un oggetto apparentemente più semplice.
Se tu potessi allestire un “Museo del Duemila”, porresti un concetto al centro del museo, ed eventualmente quale?
Io non credo che in questo momento ci sia bisogno di un museo del 2000. Credo però che ci sarebbe bisogno di dare più spazio all’arte contemporanea in collezioni del Novecento, perchè secondo me spesso si fermano un po’ troppo presto. Per quanto riguarda il fatto di creare altri musei direi di no, credo ce ne siano già abbastanza, almeno in Italia. E comunque a Roma abbiamo il MAXXI, che a tutti gli effetti è il museo del XXI secolo… anche se non mantiene la promessa, di fatto lo è.
L’EXPO finisce domani. Nel nome di EXPO sono state varate diverse iniziative, tra cui questa, che apparentemente hanno poco a che vedere con il concetto del “nutrire il pianeta”. Come pensi che questo evento possa relazionarsi con EXPO, o col suo slogan?
Mi pare che tutto si possa collegare soltanto ipoteticamente al fatto che Milano in questi ultimi sei mesi si sia dimostrata il cuore pulsante dell’Italia, il motore trainante di iniziative e di energia. Venire a Milano in questo momento permette di respirare una boccata di ossigeno rispetto ad altre città italiane magari un po’ più tradizionali. Credo che si sia messo in moto un meccanismo di ripartenza fondamentale del Paese nei cui confronti io sono estremamente fiducioso.
Gillo Dorfles è l’arte italiana; il decano di ogni critico, di ogni artista contemporaneo. Un uomo la cui carriera, quella artistica come quella accademica, nonché letteraria e anche filosofica, si svolge ininterrottamente, e ad altissimi livelli, fin dagli anni trenta del secolo scorso.
Oggi, a 105 anni compiuti, Gillo Dorfles è tuttora attivo, attento a ciò che accade nel mondo – che lucidamente analizza con immutata profondità – e, cosa più importante per lui, creativo.
Ecco perché a Roma, al MACRO – Museo dell’Arte Contemporanea – sarà allestita, a partire dal 26 novembre 2015 e fino al 30 marzo 2016, l’esposizione “Gillo Dorfles – Essere nel tempo”, in cui sono presenti opere anche recentissime del’artista, risalenti all’estate scorsa. Una mostra che abbraccia un arco di tempo, del Dorfles pittore, che risale fino alla metà del Novecento.
In occasione di questo imminente evento siamo andati a trovarlo nella sua casa milanese per porgli alcune domande, accennando alla mostra stessa – di cui Dorfles non vuole parlare molto, ritenendo, a ragione, che vada piuttosto visitata – e chiedendogli anche un punto sulla situazione dell’arte italiana.
Quali opere vedremo nella mostra al MACRO? E cos’altro può anticiparci riguardo a questa esposizione?
Piuttosto che fornire anticipazioni, preferisco andiate a vederla… spero lo farete. Sono esposte le opere dei miei ultimi anni – anche se i miei “ultimi” sono più numerosi di quelli di quasi tutti gli altri. Ci tenevo, dopo le mie più recenti esposizioni di Palazzo Reale e di Rovereto, che erano antologiche, a fare una mostra delle mie ultime produzioni; questo significa esporre le opere dei miei ultimi 50 anni: credo sarà interessante. Saranno inoltre trattati altri aspetti del mio lavoro, come ad esempio la mia attività letteraria, e credo che questo possa fornire una visione più completa della mia opera.
Alla sua recente mostra alla galleria Marconi di Milano ho visto in particolare le sue opere degli ultimi 30 anni, ovvero quelle seguenti al suo rientro – da pittore – nella scena artistica. Come si concilia lei, Professore, con i tempi moderni? Quelle opere sono le opere di un Dorfles postmoderno?
Io ho sempre seguito l’arte contemporanea. Nel senso letterale del termine: non sono uno storico dell’arte, per cui ho sempre seguito l’arte del mio tempo. Naturalmente oggi il mio tempo è un po’ arretrato, però quello che suscita il mio interesse sono sempre le ultime correnti, decisamente più di quanto non mi interessi il passato, per quanto questo passato possa io anche considerare artisticamente superiore. Ormai certe correnti artistiche passate hanno i loro rappresentanti e cultori storici, quindi è inutile che me ne occupi io.
A proposito di modernità: quale ritiene possa essere la differenza tra un’arte contemporanea ed un’arte moderna? Forse l’utilizzo dei nuovi media?
Nella nostra epoca il panorama muta ogni decennio, sulla scia dei cambiamenti sociali, culturali e tecnologici che diventano man mano più repentini. Le avanguardie del novecento avevano una durata maggiore, mentre oggi le correnti durano magari poche settimane; già i movimenti artistici della seconda metà del secolo scorso ebbero una vita attiva decisamente più breve rispetto al passato. Ora, le cose sono cambiate notevolmente rispetto al secolo scorso: oggi ogni cosa muta rapidamente, attraverso i nuovi media la trasformazione è molto più veloce. L’arte povera oggi non esiste più, ha avuto un breve periodo di vita, e basta. La transavanguardia, già negli ultimi anni ottanta, addirittura durò soltanto qualche mese.
A causa dei nuovi mezzi espressivi, oltre che della concettualizzazione sempre più forte dell’arte, ho l’impressione che ci siano sempre meno pittori.
Non è vero. È ancora pieno di pittori, ovunque. Spesso passano più in sordina rispetto a chi fa arte concettuale, che però in molti casi altro non è purtroppo che arte di second’ordine. Non c’è alcun pericolo che la pittura possa ritrovarsi destinata a diventare una forma espressiva dal sapore nostalgico e retrò, men che meno a scomparire.
Lei però ha detto che non c’è più spazio per l’arte figurativa, dopo l’avvento della fotografia, del cinema e della televisione.
Certo che non c’è n’è più: l’arte figurativa è scomparsa quasi completamente. Il ritratto, il paesaggio non esistono più. Peraltro, anche quello è stato un periodo relativamente breve: il paesaggio vive il suo culmine con l’impressionismo, che fu un periodo di una ventina di anni. Oggi nessuno va con il cavalletto a dipingere il Lambro. Con tutte le fotografie che ci sono… Si tratta di un tipo di pittura rappresentativa, figurativa che non esiste più e non esisterà più.
E ai giovani che tuttora amano in modo particolare l’arte figurativa cosa consiglia di fare?
Ci si rifaccia al passato, perchè oggi non c’è niente del genere. Chi andrebbe a fare una cosa del genere? Io stesso venti o trent’anni fa ho provato ad andare con il cavalletto in Brianza e dipingere il paesaggio, ma mi rendo conto che era una pura follia: il risultato era tutt’al più una cattiva imitazione di Seurat. Dopo i grandi impressionisti il paesaggismo non esiste più.
Vedo lì (nel suo salotto, ndr) un libro di Adorno… e penso che lui un po’ di tempo fa disse: “Il compito attuale dell’arte è di introdurre il caos nell’ordine”. Oggi? Ha ancora un compito, l’arte? Quale?
Quella di Adorno è solo una boutade. Il compito dell’arte, oggi, è semplicemente quello di esprimere le proprie fantasie se ci sono; chiaramente, se uno non ne ha, non ha niente da esprimere.
Ma cos’è l’arte? Mi perdoni se le faccio la domanda più banale del mondo, ma non so chi potrebbe rispondermi se non lei. Questo è un estremo tentativo, perché forse lei è l’unico che potrebbe darmi una risposta.
Devo disilluderla: è davvero una domanda a cui non si può neanche cominciare a rispondere.
L’italia e l’arte: il nostro paese è ancora protagonista, da quel punto di vista? Ha ancora un’influenza nel mondo?
L’arte italiana ha ancora buoni artisti, ma non sa creare più grandi o medi movimenti. Dopo quanto fatto nel Novecento, dal futurismo fino a – come dicevo prima – correnti come l’arte povera o la transavanguardia – che non saranno delle grandi correnti, ma che però hanno avuto i loro capolavori – la nostra arte ha certamente patito lo spostamento del baricentro artistico dall’Europa agli Stati Uniti. Dai tempi di Pollock, Rotchko, e poi Warhol, fino ad oggi, i grandi artisti si trovano sempre più facilmente in America. Del resto è anche logico: gli Stati Uniti, fino a cinquanta anni fa, non avevano avuto le possibilità e il background che aveva l’Europa.
E di artisti italiani come Cattelan, che godono comunque di una notevole risonanza internazionale – grazie indubbiamente anche all’idea provocatoria – che pensa?
Penso che in questo momento in Italia non abbiamo più artisti dell’importanza di quelli legati ai movimenti che ho citato. L’epoca dei futuristi, dei Capogrossi, è finita. Spiace dirlo, ma purtroppo è così.