Non esiste probabilmente alcun personaggio storico – con l’eccezione di Hitler – che abbia goduto di peggiore pubblicità di Nerone. Incendiario, pazzo, addirittura Anticristo secondo alcuni autori cristiani, la figura del “cesare maledetto” è stata considerata totalmente negativa per duemila anni. “Duemila anni di calunnie”, come diceva nel titolo del suo saggio (ed. Marsilio) Massimo Fini; e come sottolineava Edoardo Sylos Labini nel suo spettacolo teatrale del 2015, quando, per primo, decise di mettere in scena la vicenda alternativa – e ormai considerata reale dagli storici – di Lucio Domizio Enobarbo, in “arte” Nerone.
La nostra volontà di “giocare” con il nuovo nome dell’imperatore – che lo assunse quando venne adottato dall’imperatore Claudio – è legata a uno degli aspetti più notevoli di Nerone. Che fu senz’altro un grande uomo di stato, nonostante la pessima “stampa” di cui dicevamo, dovuta in gran parte al fatto di essere a favore del popolo e inviso invece all’aristocrazia di cui facevano parte anche i suoi biografi; ma che fu anche il primo degli antieroi, dei ribelli, dei miti popolari vissuti bruciandosi (e non bruciando…) invece che spegnendosi lentamente. E che morì giovane, suicida. Come Rimbaud, come James Dean, ma ancor di più come una moderna star del rock o del pop.
Una vita e una fine tormentate, che come raccontava Sylos Labini si svolgevano nella Domus Aurea – il suo palazzo imperiale – attorniato da una corte di mimi, ballerini, musicisti e prostitute; e dove lui, poeta, “chitarrista”, attore, viveva la tempesta di sentimenti, paure e riflessioni che lo accompagneranno verso la fine.
Ancora, oggi, due anni dopo quello spettacolo che, oltre alla rivalutazione della figura dell’imperatore, si poneva come obiettivo l’analisi degli ultimi tragici giorni di un (anti)eroe decaduto – tema caro a Sylos Labini, che lo affronterà altre volte, la più recente col suo “d’Annunzio segreto”- la figura di Nerone diventa la chiave per creare uno spettacolo teatrale moderno e importante. Seppur con un piglio diverso: non con l’occhio introspettivo del regista di Pomezia, ma ponendo il focus sulla figura iconica e “pop” del cesare. E per farlo, in linea con questo aspetto, la formula scelta è quella del musical.
Si tratta di “DIVO NERONE – OPERA ROCK. Il musical più infuocato della storia”, dal 7 giugno a Vigna Barberini, sul Colle Palatino a Roma. Ed è destinato a diventare l’evento più importante della stagione romana: si tratta infatti di un vero kolossal, firmato dal tre volte premio Oscar Dante Ferretti per la scenografia, dall’altrettanto triplice premio Oscar Francesca Lo Schiavo agli arredi e alle decorazioni, dal premio Oscar Gabriella Pescucci per i costumi, e dal premio Oscar Luis Bacalov che si occupa delle musiche insieme con il duplice premio Grammy Franco Migliacci, ideatore dell’opera. La direzione artistica è del figlio, Ernesto Migliacci. La regia è di uno dei massimi registi italiani, ovvero Gino Landi, e le coreografie sono di Marco Sellati.
L’intenzione è insomma quella di fare di Nerone il protagonista del più sensazionale spettacolo d’intrattenimento made in Italy mai realizzato prima, come giustamente sostiene Cristian Casella, che firma la produzione.
Importantissimo anche il contributo di un’altra eccellenza italiana: quella dell’istituto per le tecnologie applicate ai beni culturali del CNR, che contribuisce a creare – nel contesto delle aree in cui l’imperatore visse – gli scenari tridimensionali che riproducono le sontuosità architettoniche dell’epoca.
Un vero e proprio viaggio attraverso i secoli, quindi, che rende lo spettacolo un importante promotore culturale, artistico, turistico ed archeologico al contempo, con l’aspirazione di diventare l’evento irrinunciabile per chiunque passi dalla Capitale. A testimonianza dell’eccellenza della nostra storia, ma anche dell’importanza del nostro presente.
Scenario: il PAC, ovvero il Padiglione di Arte Contemporanea di Milano. È ancora in corso l’esposizione di Jeff Wall (NDA: ci sono stata qualche mese fa, è bellissima: se amate la fotografia andateci assolutamente), e il museo si fa per l’occasione location di un evento particolare: la presentazione del nuovo libro di Francesco Bonami, critico e curatore di fama internazionale. Tra orde di giovani fan di Bonami che lo cercano ed invocano quasi fosse una rockstar, battute del crititco, botta e risposta di Bonami e Pif, ad un certo punto una elegantissima signora sbotta. “Scusate eh!, però io non capisco tutto questo avanspettacolo… e ancora non si è parlato del libro! No, cioè, perché se uno viene a una presentazione di un libro si aspetta di sentire parlare del libro…” Il Nostro non si scompone. Invece, risponde alla signora distratta (che nel frattempo continuava a dire la sua): “Beh signora, se lei comprerà il libro – che a questo punto le sconsiglio di comprare se questo tipo di atmosfera non è di suo gradimento – noterà che del libro abbiamo parlato, eccome.”
Ed è veramente così. “Mamma voglio fare l’artista!” (Electa) è effettivamente un vademecum che, come indica il sottotitolo, fornisce all’aspirante artista delle “istruzioni per evitare delusioni”; ma il tutto è scritto in chiave spesso ironica, divertita e divertente. Ed è – sostanzialmente – un’autobiografia. Il fatto che venga trattata tra il serio e il faceto, quindi, ci rasserena. Perché ci fa capire che Bonami ha superato alla grande tutti i traumi dovuti alle sue delusioni. E ora non abbiamo in lui un grande artista, ma tant’è: abbiamo comunque un Maestro. Inteso come guida e punto di riferimento.
Anche se su questo termine si può far confusione, almeno in Italia… Proprio parlando di ciò ho iniziato la mia intervista a Francesco Bonami.
E’ molto interessante il discorso che ha fatto nel libro sul termine “Maestro” (che viene indicato come il massimo titolo possibile, più che “Dottore” o “Professore”), ma forse è davvero chiaro solo nei paesi anglosassoni. Si figuri che una volta ho chiamato Maestro Bonito Oliva e lui mi ha risposto piccato “… io non insegno mica alle elementari!” Ho dovuto ripiegare su “Professore” per ammansirlo. Ma è possibile che lo stesso Bonito Oliva, che di maestri dovrebbe intendersene, faccia confusione sul termine? Beh, è questione di come ognuno vede se stesso. Chiaramente – in modo particolare in Italia – il termine “professore” è più altisonante. “Maestro”, pur potendo intendersi più in generale come riferito a una figura estremamente autorevole e illuminante, di solito si riferisce ad un artista. Quindi, non essendo lui artista, forse da un punto di vista tecnico non è un maestro; e il maestro che potrebbe essere sarebbe quello delle elementari. Purtroppo, però, Bonito Oliva non insegna alle elementari, il che sarebbe meglio, perché potrebbe dire delle cose interessanti anche ai bambini.
Nel libro, lei paragona il grande Artista ad un Papa, che non dovrebbe accontentarsi di rimanere un umile parroco. Lei era convinto di poter diventare Papa e quindi di poter predicare il Verbo, invece è diventato un ottimo teologo. Come ha vissuto questa realtà? è stato un ridimensionamento o una riscoperta di sé? Accidenti… ma questa è una domanda.. come si dice, è stato giocoforza. Uno scopre di non poter aspirare ad essere Papa: a quel punto può decidere di essere un ottimo parroco di una parrocchia di città o paesello, può decidere di farsi frate, può decidere di incattivirsi e diventare un terrorista, oppure può diventare un teologo… Ora, teologo mi sembra una parola molto grossa. Diciamo che mi sono riciclato, ho fatto buon viso a cattivo gioco, non potendo diventare Papa ho provato a capire perché ci sono persone che diventano Papa.
Quanto pensa che questo libro sia veramente utile? Sembra che lei voglia dare dei consigli agli aspiranti artisti. Ma un vero artista non dovrebbe ritrovarsi a fare questo percorso naturalmente da solo? Il libro ha parecchio di autobiografico, di fatto io racconto la mia storia. E va detto che molto spesso quando io ho letto, ho visto e osservato la storia degli altri ho imparato delle cose. Quindi, spero che leggendo il libro si possano imparare delle cose. Non che venga seguito per filo e per segno: fare l’artista richiede anche un grosso egocentrismo e quindi anche una capacità di non ascoltare gli altri. Quindi immagino che molti lo leggeranno e saranno contrari a quello che dico, oppure che molti lo leggeranno e faranno finta di aver capito, ma poi si comporteranno ugualmente a modo loro. Io l’ho scritto non con l’intento di fornire delle regole “da seguire alla lettera”, ma conscio del fatto che certi input entrano dentro la testa e magari uno se li ricorda in determinate situazioni. Che so, magari un giorno un artista sta per attraversare la strada per placcare un critico e assillarlo con le proprie opere, gli torna in mente quello che ho scritto io e si dice “No! Non lo faccio!”, evitando di crearsi un’antipatia. Anche se poi sicuramente ognuno certe cose deve viverle sulla propria pelle.
Se un giorno arrivasse suo figlio da lei e le dicesse: “Papà, ho deciso, voglio fare il prete!” Come reagirebbe? Beh, io sarei contento.
…o il terzino? (NDA: il libro inizia proprio dal racconto di Bonami che, da piccolo, si vedeva costretto a fare il terzino assieme ai compagni più scarsi) Il terzino mi preoccupa, perché il prete in fondo è più vicino all’artista; non ho alcun disprezzo verso i preti, fare il prete è già un sacrificio, uno lo fa e accetta già il fallimento, nel senso che convertire la gente è più difficile che convertirla alla propria arte. Quindi, se volesse fare il prete mi preoccuperei più che altro perché è una vita faticosa. Se volesse fare il terzino, mi stringerei nelle spalle perché non è una questione di vocazione. Però sono sicuro che da padre…
Ha figli? Sì, ne ho due. E sono femmine. Quindi – almeno per ora – non possono dirmi di volersi fare prete. Però potrebbero dirmi di volersi fare monaca o suora. Non potrei che accettare, io credo che le vocazioni vadano tutte rispettate. Come dicevo, invece, quella del terzino non è una vocazione: è una fortuna se uno gioca veramente molto bene, o una sfortuna se gioca così bene da trascurare di sviluppare il cervello esclusivamente a vantaggio delle gambe inferiori…
Va beh, le gambe son sempre inferiori.
E dopo quest’ultima frase, che ha magicamente ricondotto la nostra chiacchierata nell’alveo dell’atmosfera da avanspettacolo, con la signora che ancora strepitava, lasciai il Maestro Bonami in pasto ai suoi giovani fan. Speriamo che leggano con attenzione il suo libro.
Sessanta, Settanta, Ottanta. Sessanta gli anni in cui si afferma; Settanta, gli anni che aveva quando ci ha lasciati. Ottanta, gli anni che avrebbe oggi.
Ma sono poche le figure per cui, in realtà, il tempo è qualcosa di estremamente relativo come per Guido Crepax. La sua eroina per eccellenza, Valentina, icona incontrastata degli anni Sessanta, è “invecchiata” – caso più unico che raro – assieme al suo autore. E, nel farlo, non è mai stata vecchia. Non è mai stata prigioniera di un’età, di una generazione. Nemmeno di un’arte, che fosse la propria – lei, fotografa, sin dal 1965, quando certamente non era frequente che ci fossero donne fotografe di moda – o che fosse quella che l’ha resa nota, o meglio reale, ovvero il fumetto.
Valentina, nelle sue strisce, si muove su sceneggiature e ritmi cinematografici. Circondata da oggetti di design, vestita da abiti che dalle sue storie riusciva perfino a imporre alla moda.
Lei, alter ego del suo creatore, che questi abiti li scopriva prima che arrivassero sulle riviste italiane, che era nato designer e architetto, che seppe portare nella nona arte la contaminazione della settima e della seconda, ridefinendone di fatto le dinamiche. E questo fece di Crepax uno dei massimi innovatori del fumetto e del suo linguaggio, o meglio ancora uno dei suoi massimi artisti: uno che sognava che il fumetto si facesse arte, e anche che l’arte si facesse fumetto – come dimostrano le sue rivisitazioni e citazioni di classici della letteratura e dell’arte figurativa.
Scriveva Umberto Eco, che di linguaggi se ne intendeva parecchio:
“Con Crepax cambiava il senso del tempo nel fumetto, ovvero il rapporto tra spazio e tempo… due inquadrature potevano suggerire contemporaneità, come se il lettore voltasse rapidamente la testa da una parte e dall’altra di una scena, cogliendo nello stesso istante due particolari diversi”. Sembrerebbe di leggere di un regista, se sostituissimo a “fumetto” la parola “cinema”.
In occasione del decennale della scomparsa, e grazie ad Archivio Crepax – gestito dagli eredi di Guido, che hanno curato interamente il progetto – apre dal 20 giugno al 15 settembre 2013 la mostra “Guido Crepax: ritratto di un artista”, allestita nelle dieci sale dell’Appartamento di Riserva di Palazzo Reale a Milano.
L’esposizione mette per la prima volta l’autore in primo piano rispetto alla sua Valentina. Che, certo, è molto presente lungo quello che di fatto è un percorso tematico di approfondimento del mondo di Crepax, ma – almeno per una volta – non da protagonista, bensì da comprimaria. Da compagna; o, meglio ancora, da madrina.
Ognuna delle dieci sale dell’Appartamento di Riserva tratta un tema particolare dell’universo del suo autore, e di come questo abbia influenzato la sua opera: dal rapporto con la città di Milano a quello con la sua famiglia, da Valentina alle sue altre donne, dalla moda al design, dalla letteratura al cinema, alla fotografia, alla musica e all’arte. Un percorso, dicevamo, che approfondisce come mai prima l’opera di Crepax e le sue radici, sia tramite le oltre 4500 tavole originali esposte, che attraverso una quantità di oggetti di design ispirati dall’opera dell’autore; oltre ad esporre i frutti del suo lavoro come illustratore, grafico, pubblicitario e le chicche dei giochi in scatola da lui ideati e creati, sua grande passione.
I figli di Guido, alla conferenza stampa di ieri, raccontavano che questa – pur cadendo nel decennale della scomparsa, e a ottant’anni dalla nascita – non vuole essere una mostra commemorativa, ma una mostra vitale: che riesca, insomma, a porre in evidenza le dinamiche – direi proprio nel senso etimologico del termine, ovvero le “forze” – che animavano la vita creativa dell’autore.
Palazzo Reale, quest’estate pare voler ospitare delle mostre “atipiche” e ben venga l’atipicità, se i risultati sono di questo livello. Dall’omaggio a Crepax, maestro, rivoluzionario e “regista” del fumetto, si passa ora a quello di un altro maestro, innovatore assoluto della regia e del cinema, che disegnava in prima persona le sceneggiature dei propri film.
Dal 21 giugno al 22 settembre 2013 è in esposizione “Alfred Hitchcock nei film della Universal Pictures”. Si tratta fondamentalmente di fotografie scattate sui backstage di alcuni dei più importanti film del maestro inglese, durante il suo periodo americano alla Paramount (in seguito acquisita da Universal).
Sempre che si possa parlare di “alcuni dei più importanti film” di Hitchcock. Com’ebbe a dire non uno qualunque, ma monsieur Francois Truffaut: «La signora scompare, Notorious, l’amante perduta, La finestra sul cortile, sarebbero bastati ad assicurare la gloria di qualsiasi regista, ma anche aggiungendo Il club dei trentanove, Rebecca, Il sospetto, L’ombra del dubbio, Delitto per delitto, L’uomo che sapeva troppo, Intrigo internazionale, Psyco, Gli uccelli, Marnie, non avrete enumerato che la quarta parte di una filmografia abbagliante, la più ricca e la più completa tra quelle dei registi che hanno debuttato negli anni venti, cioè con il cinema muto.»
È effettivamente molto difficile compiere una selezione tra i film di Hitchcock. Ancor più difficile è trovare in essi dei difetti. Hitchcock rappresenta forse il caso più notevole di convergenza di vedute tra la critica più mainstream (come quella che assegna gli Oscar, per intenderci), quella più selettiva e “alternativa”, e il grande pubblico. È molto difficile trovare qualcuno che sostenga che non gli piaccia Hitchcock, e che sia in grado di motivare questa sua affermazione. Marco Ferreri una volta lo disse, ma senza aggiungere null’altro che non fosse “… mentre amo invece Orson Welles”.
Hitchcock fu maestro di cinema sotto ogni punto di vista. Lo fu nella gestione delle dinamiche della tensione del racconto (la suspence, di cui fu un vero mago), nell’approfondimento psicologico dei personaggi, nel ricorso ai simboli (non a caso sono i dettagli dei suoi film, più delle trame, a imprimersi a fuoco nella memoria collettiva). Lo fu anche dal punto di vista degli aspetti tecnici, come ad esempio nella gestione dei piani sequenza (si passa dalle settanta inquadrature in 45 secondi della famosa scena della doccia di Psycho al virtuale piano sequenza unico per tutta la durata di Nodo Alla Gola), o nel frequente utilizzo dell’inquadratura in soggettiva che tende a far sì che lo spettatore si identifichi nel protagonista (soprattutto nei momenti di maggior tensione), fino all’utilizzo degli effetti speciali, che ebbe il suo culmine ne Gli Uccelli.
E l’esposizione cerca di indagare e raccontare questi aspetti, tramite foto di scena, citazioni e spezzoni tratti dalle pellicole, oltre ad una serie di approfondimenti video del critico cinematografico Gianni Canova, che analizza la psicologia dei personaggi, le scene più memorabili e soprattutto la personalità del Maestro.
Dicevo, all’inizio, delle mostre atipiche: mostre che non riguardino strettamente pittori, o scultori, o anche fotografi, ovvero le canoniche figure che solitamente occupano le sale delle gallerie d’arte, dei musei, delle abituali sedi espositive.
Figure che però, inevitabilmente, per la loro grandezza, diventano protagoniste di esposizioni ricche, che valicano i confini forzati non solo del genere, ma anche del mezzo espressivo. Che ci permettono di abbattere il limite che noi stessi tendiamo a porre tra la forma espressiva e la pura espressione. Che non sono pittori, scultori, fotografi, registi, fumettisti: sono solamente Artisti.
Per dirla con Jean-Luc Godard: « Hitchcock è stato l’unico a dominare l’universo, miliardi di spettatori, facendone esattamente ciò che aveva voluto. Quando ha voluto farli piangere, li ha fatti piangere, quando ha voluto spaventarli, li ha spaventati. Certo, era un artista, non ha fatto come Stalin o come Hitler. … E se Hitchcock è stato il solo artista, l’unico poeta maledetto ad aver avuto un successo mondiale è perché egli è stato il più grande creatore di forme del ventesimo secolo.»
Oggi è il 13 Luglio 2013. Non sto raccontando una mostra, stavolta: sto celebrando il ricordo di un artista. Esattamente ottant’anni fa, infatti, nasceva Piero Manzoni. Che moriva, peraltro, pressapoco 50 anni fa, nel 1963.
Questa doppia ricorrenza verrà celebrata tra pochi mesi a Palazzo Reale a Milano, che ospiterà tra ottobre e gennaio prossimi una grande esposizione a lui dedicata, oltre ad esserlo in varie altre manifestazioni tra cui un’importante retrospettiva recentemente inaugurata (26 giugno, e fino al 22 settembre) al Museo Städel di Francoforte.
Piero Manzoni è oggi considerato uno dei massimi esponenti dell’arte concettuale, un più che degno continuatore dell’opera di Duchamp. All’epoca, però, e per molti anni a seguire, fu considerato essenzialmente un provocatore, quando non un buffone; in ogni caso, tutto fuorché un artista.
Bizzarro invece il fatto che l’opera di Manzoni abbia insistito, per tutta la durata della sua breve ma intensa vita, su un percorso teso a oltrepassare il limite tra l’arte e la non arte; a voler rendere arte tutto. E, seppur talvolta provocatoriamente, facendolo in maniera estremamente coerente, sorprendentemente efficace e sincera. Naturalmente estremista ed intenso – quasi stupisce poco che sia morto di infarto a soli 30 anni – Manzoni riuscì a compiere in poco più di un lustro di attività un percorso che riuscirà effettivamente – fino a prova contraria – a trasformare in opera d’arte tutto ciò che esiste al mondo.
Fu con gli achromes che iniziò ad elaborare il suo concetto: opere prive di colore, quasi sempre bianche ma in ogni caso mai coperte da pigmenti, in cui era la materia – e non, appunto, il tratto o la cromaticità – ad essere protagonista. La tela stessa, o il neonato polistirolo espanso; il caolino, cui dava forme o con cui ricopriva oggetti; il cotone, la plastica, le fibre sintetiche. E lo scopo era proprio quello di superare il limite della forma, cercando di porre la concentrazione sull’essenza – ovvero sulla materia.
Il passo seguente fu quello di spostare l’attenzione su qualcosa di ancor più essenziale. Ovvero il puro concetto, l’idea. E la volontà, una volta autoproclamatosi artista, di rendere arte ogni possibile cosa. E allora gonfiava dei palloncini, “Fiato di artista”: che in effetti erano opere d’arte, in quanto generate da una sua azione. E che, se scoppiati, diventavano reliquie da incollare ad una base di legno, e quindi ulteriori opere. E invitava ad una sua mostra un pubblico a cui serviva delle uova sode firmate con la sua impronta digitale, opere da consumare all’istante.
Perfino le persone diventano opere. Manzoni infatti le firma (tra le sue “opere”, gli stessi Umberto Eco e Mario Schifano), rilasciando regolare ricevuta anch’essa firmata, a garanzia dell’autenticità. Farà poi ancora di più, firmando un piedistallo con appositi segnaposti per i piedi, su cui chiunque potrà salire, e diventare un’opera di Manzoni.
Questo suo atteggiamento quasi da “re Mida” dell’arte, in cui qualunque cosa toccasse diventasse non già oro, ma opera, si concretizzò in quella che fu la più famosa tra tutte. Nel maggio del 1961 si chiude in albergo per tutto il tempo necessario per produrre novanta scatolette di feci, che metterà poi in vendita letteralmente a peso d’oro (circa 30 grammi l’una).
Molte sono le chiavi di lettura di “Merda d’Artista”: dalla simbologia del prodotto “viscerale” dell’uomo, alla provocazione nei confronti del mercato dell’arte pronto a pagare – letteralmente – a peso d’oro qualsiasi merda un artista produca (senza contare che in effetti oggi le scatolette valgono decisamente più del loro peso in oro). Ci sono però alcuni aspetti più raffinati, generalmente poco considerati. Innanzitutto il brillante calembour tra l’aspetto scatologico dell’opera (cfr. Wikipedia: “Col termine scatologia (dal greco attico σκῶρ, gen. σκατός, “escremento”, e λόγος, “materia, ragionamento”), s’intende ogni cosa che abbia a che fare con le deiezioni.”) e le scatolette stesse. E poi un altro retroscena, e un altro gioco di parole, se possibile ancora più sorprendente: Piero Manzoni, oltre che parente alla lontana del più famoso Alessandro, era il rampollo (… o la pecora nera?) di un’altra dinastia di Manzoni. Ovvero, i signori che producevano la carne in scatola Manzotin. Lo stesso nome del prodotto è un gioco di parole tra Manzoni, il manzo contenuto nella scatola e il termine inglese “tin” che significa – appunto – scatoletta di latta. Quasi come dire che dentro le scatolette di Manzotin c’era un po’ di un Manzoni. E dentro alle scatolette di Piero, decisamente, anche. Ma con un approccio certamente più geniale.
Il percorso di Manzoni si concluderà idealmente, l’anno seguente, con l’opera a mio parere più sorprendente di tutte. La “Socle du Monde”, ovvero lo zoccolo del Mondo. Un piedistallo installato nel parco di una fabbrica danese. Capovolto al suolo. Per trasformare definitivamente il mondo intero, e tutto ciò che si trova su esso – animali, vegetali, sassi, esseri umani – in un’ Opera d’Arte.
Per questo sentitamente e sinceramente ti ringrazio, Piero. E buon compleanno a te.
Decidere di andare a vedere la mostra di Amanda Lear ripromettendosi di evitare in ogni modo – o comunque, per quanto più possibile – di parlare di altro, della sua storia, di Dalì e di Bowie, di Brian Jones, di Voules-Vouz e di Cocktail d’Amore, è un proposito sicuramente onorevole. Perché si tratta comunque di una mostra, si tratta di opere di una pittrice – sebbene Amanda sia nota più per altre sue attività – che non sarebbe giusto sminuire parlando d’altro.
Questo il pensiero, prima di andare all’inaugurazione di “Visioni”, presso la Milano Art Gallery, organizzata da Salvo Nugnes, in esposizione dal 31 Luglio al 24 Agosto 2013. Ritrovandosi però poi a scrivere della mostra, dell’incontro, e di Amanda, ci si rende conto che non pensare all’Amanda artista in ogni sua sfaccettatura, e – che le piaccia o meno – archetipo della musa moderna, non è cosa poi così buona e giusta. L’Amanda pittrice è tale anche perché ha vissuto la vita che ha vissuto e che continua a vivere: tanto è vero che, come lei stessa sostiene, i quadri che dipinge sono quasi le cose non dette, inespresse, non urlate, che vivono solo in lei stessa anche proprio in conseguenza di quella che è la sua vita e in quello che è il suo mondo.
Non serve però, alla fine, accennare alla sua storia. Basta solo tenerne conto, e darle l’importanza che senz’altro merita.
Per il resto ci sono le risposte che Amanda Lear, Pittrice, mi ha dato.
Non posso evitare di farle una domanda legata a Dalì. Lui sosteneva che le donne non hanno talento e che mai una donna avrebbe potuto essere una buona pittrice… Sì, è vero. Diceva che la pittura è un mestiere da uomo, non so perché.
E’ anche vero però che quando ha visto le sue prime opere ha detto: “Non male per essere una donna”… “Per una donna”, appunto. Non mi ha detto “non male!” e punto. E io mi sono offesa, e ho pensato “cretino”. Chiaramente lui era proprio il macho tipico spagnolo. Allora mi dissi vabbeh, lasciamo perdere.
Questa mostra ci fa conoscere uno degli aspetti della sua espressione, e tutti gli artisti poliedrici hanno una forma espressiva nella quale più si ritrovano. Qual è la sua? Assolutamente la pittura. Generalmente tutto quello che faccio è il risultato di un lavoro di team: la musica con i musicisti, il teatro con i registi e gli attori, la televisione… Invece con la pittura sono completamente da sola. E’ una cosa molto più intima, molto più personale. E per questo ci tengo tantissimo; senza contare che comunque ho sempre dipinto da quando facevo le Belle Arti e penso che dipingerò fino alla morte.
Ora le faccio una domanda di estrema originalità: che cosa sono queste visioni? Sono loro che hanno deciso questo titolo… “Visioni”… è quello che ho in testa. Piuttosto “Immaginazioni”. Ci sono dei paesaggi, ma sono paesaggi che invento, non mi metto davanti a un paesaggio, ce l’ho in testa. Anche tutti questi soggetti come San Sebastiano, Penelope, Ulisse, Mida… il Mito mi ispira molto. Tendo comunque a rappresentare scenari onirici, piuttosto che dipingere un piatto, una bottiglia e un po’ di uva. Non faccio spesso le nature morte… no, c’è troppa violenza, ho dentro di me parecchia angoscia, inquietudine, ribellione, e tutto questo deve uscire. Sai, nel lavoro che faccio c’è chi si droga, chi va in analisi, hanno tutti bisogno di estraniarsi… e io con la pittura ti assicuro che mi sento molto meglio. Io torno a casa, e dipingo. È proprio una terapia, mi fa sentire bene, mi sfogo, è come andare dallo psicanalista.
La sua è la storia di una musa o è la storia di un’ artista? Mah, la storia della musa… Continuano a dirmi ancora adesso che sono la musa di Jean Paul Gaultier, la musa di di Givenchy, la musa di quello e di quell’altro. Io ancora non ho capito bene questa cosa della musa, il muso, la musa…
Essere lì quando l’artista sta creando la sua opera… il fatto che tu sia lì sembrerebbe implicare che tu contribuisca a farlo sentire bene, a dargli un po’ di ispirazione… ma non penso che sia poi questo gran lavoro. Meglio sentirsi artisti in prima persona, perchè da me stessa io creo delle cose: io dipingo, io recito, io canto… Faccio delle cose, mentre la musa non fa “un cazzo” (sic), si mette lì come un oggetto…
L’Italia che apprezziamo è quella che anche in agosto, anche quando siamo in vacanza, riesce ad offrirci la possibilità di poter apprezzare l’arte. Sembra un discorso scontato, dato che praticamente ogni città o cittadina di questo Paese possiede opere architettoniche di rilevante valore artistico inserite nel proprio tessuto urbano; ma il riferimento è relativo alle esposizioni.
Ecco quindi che ritrovarsi in vacanza nel Salento e grazie a questo fatto potersi godere – oltre al mare meraviglioso e a tutto il resto che questo territorio sa offrire – una mostra, per esempio, di Warhol (come fu l’anno scorso), o di Giorgio de Chirico (com’è quest’anno, sempre nella medesima location) rappresenta un piacevole diversivo alla classica villeggiatura estiva.
A ospitare l’esposizione “Mistero e Poesia”, dall’8 giugno al 29 settembre 2013, è la suggestiva cornice del Castello Aragonese di Otranto.
Una location – sia il castello, che il Salento stesso – che non sarebbe potuta non piacere a de Chirico, che basava sull’impressione e successiva rappresentazione di piazze e di musei gran parte della propria pittura e poetica, e che sosteneva che “Senza la scoperta del passato, non è possibile la scoperta del presente”: e la fortezza di Otranto, che racconta quasi un millennio di passato decisamente intenso, pare un contesto più che appropriato. Altrettanto si può dire del Salento, che è Grecia non solo Magna, ma tuttora viva (molte sono le comunità ellenofone, di origini antiche, presenti in questa zona): e la Grecia – paese natale, tra l’altro, del Maestro – rappresenta il fulcro di quell’universo mitologico, legato alla storia dei popoli mediterranei, che nella visione di de Chirico è in grado di rendere dignità estetica ad ogni oggetto, anche il più umile, poiché inserito in un contesto dal passato illustre.
L’inserimento di elementi estranei, e quindi stranianti, in paesaggi di un’Italia in cui non esistono persone, ma solo grandi piazze, è peraltro la caratteristica principale e più nota della pittura di de Chirico.
Scriveva il Maestro: “È già stato osservato più di una volta l’aspetto curioso che riescono ad acquistare letti, armadi, specchiere, divani, tavoli, quando ce li troviamo improvvisamente dinnanzi sulla strada, in uno scenario nel quale non siamo abituati a vederli: come accade in occasione di un trasloco, oppure in certi quartieri dove mercanti e rivenditori espongono fuori dalla porta, sul marciapiede, i pezzi principali della loro mercanzia. Tutti questi mobili ci appaiono sotto una luce nuova, raccolti in una strana solitudine: una profonda intimità nasce tra loro, e si direbbe che un misterioso senso di felicità serpeggi in questo spazio ristretto da loro occupato sul marciapiede (…) I mobili sottratti all’atmosfera che regna nelle nostre case ed esposti all’aperto suscitano in noi un’emozione che ci fa vedere anche la strada sotto una luce nuova. Una profonda impressione ci possono suscitare anche dei mobili disposti in un paesaggio deserto. Immaginiamoci una poltrona, un divano, delle seggiole, radunate in una piana della Grecia, deserta e ricoperta di rovine, oppure nelle prateria anonime della lontana America. Per contrasto anche l’ambiente naturale tutt’intorno assume un aspetto prima sconosciuto.”
E questi spazi surreali da lui inventati, luoghi inquietanti in cui però architetture classiche e prospettive di matrice rinascimentale tendono a rassicurare lo spettatore – nonostante le dissonanze date dagli elementi estranei e dall’assenza di vita, se non per occasionali e lontanissime sagome umane – saranno di fatto fortemente influenti sin dall’epoca del ventennio fascista nella effettiva realizzazione di edifici e piazze che richiameranno fortemente questi scenari.
Le sagome umane, dicevamo. Solamente delle minuscole appendici, nere, a delle ben più grandi ombre – altrettanto nere – che si stagliano sul terreno. L’essere umano è un’ombra, e laddove non sia tale è un manichino, o una statua antica. “Muse inquietanti”, custodi impersonali di spazi atemporali che non avrebbero potuto essere altrimenti, per essere in grado di abitare i suoi ambienti al contempo antichi ed estremamente moderni, o per meglio dire futuri – quasi apocalittici.
Non che De Chirico non facesse ritratti di figure umane. Ne faceva, eccome. Ma la figura ritratta era praticamente sempre la stessa: la sua. Spesso con un ulteriore sé stesso – raffigurato magari in un quadro in cornice – sullo sfondo; o con sé stesso posto di fronte ad un busto classico, bianco, che ancora una volta lo ritrae. “Pictor Classicus Sum”, diceva intitolando uno dei suoi primi autoritratti; ed è tramite questi lavori che intende sottolineare il proprio rapporto con la pittura e la scultura classiche.
La mostra di Otranto illustra il percorso della sua opera all’insegna della Metafisica – intesa dal maestro come qualità eletta della pittura e non come caratteristica dei soggetti – che scorre lungo le diverse fasi stilistiche del suo lavoro: recupero della tradizione classica, surrealtà e riavvicinamenti alla realtà si intrecciano in un universo di mondi, linguaggi e codici differenti.
Da non perdere, se siete in zona.
Ottimo pretesto per visitare una terra meravigliosa, se non siete in zona.
A dieci anni dalla scomparsa dell’artista, la Fondazione Marconi allestisce la mostra “Enrico Baj. Segni e disegni”. Con questa esposizione, Giorgio Marconi e la sua fondazione intendono ricordarlo con una mostra di suoi disegni – tra i quali figurano alcuni inediti – ed esponendo un repertorio pressoché unico e diverso dagli altri, che consente di approfondire la conoscenza dell’artista milanese al di là della sua opera “maggiore”.
Abbiamo posto alcune domande a Giorgio Marconi e a Roberta Cerini, moglie di Baj, per poter conoscere più da vicino – grazie alla testimonianza di chi bene lo conosceva – un uomo che ha lasciato un vuoto difficilmente colmabile nel panorama dell’arte contemporanea italiana.
Intervista a Giorgio Marconi
La scorsa estate sono stata a Palazzo Reale per vedere “I funerali dell’Anarchico Pinelli”. Devo dire, da amante del surreale nell’arte, di essere stata invece inaspettatamente molto colpita ed emozionata dal senso fortemente realista dell’opera, in barba alle influenze surrealiste e dadaiste di Baj. Cosa pensa della capacità dell’artista di conciliare questi due aspetti? Penso che tu abbia ragione. Lui è riuscito a rendere i personaggi visibili, e i loro visi leggibili, soprattutto quelli dei poliziotti e quello di Pinelli che cade con la bocca aperta come in un urlo. Nell’opera ogni personaggio ha una sua qualificazione, uno che ha una divisa ha una sua meccanicità. E’ un quadro veramente figurativo, ma non è fatto solamente per raccontare, ma per stimolare la fantasia. Questo quadro è nato grazie alla conoscenza e alla memoria visiva di Baj, e quindi c’è un’atmosfera drammatica. È un quadro epico. Finalmente è stato esposto dove doveva essere esposto inizialmente, ma dopo 40 anni. Prima ha girato il mondo, Olanda, Belgio, Europa, America. Credo che l’opera finirà al Castello Sforzesco. Io non voglio regalarla al Comune, anzi, la voglio regalare ma con una clausola, ovvero che ogni tanto possa girare come ha già fatto, perché penso che sia un’importante opera di comunicazione, e può essere anche utile come forma di promozione per l’arte italiana.
Com’era l’uomo Enrico Baj? Era socievole e sociale, voleva parlare con la gente. Era anarchico e antigovernativo, perché vedeva che in tanti anni il governo non aveva fatto niente. A volte votava e a volte no. Era uno che se poteva aiutava la gente. Ha aiutato persone anche economicamente. Lui rispettava l’uomo e la gente, e criticava quello che era orpello, che era in più. Era un uomo di cultura, scriveva, ha scritto diversi libri, lui era un intellettuale puro. Noi eravamo amici, tra tutti gli artisti che ho avuto sicuramente l’amico. Con lui ho fatto diversi viaggi, ricordo quando siamo andati a San Francisco, dopo un viaggio di venti ore il tassista voleva sbatterci giù perché sembrava litigassimo. Io sono una persona curiosa e chiedevo sempre a tutti gli artisti perché dipingessero. Quello che interessava a Baj era criticare. Analizzare, e cercare di sconfiggere tutte le superficialità. Enrico diceva: “Contro l’inumana linea retta del costruttore e del pianificatore lottai tutta la vita con alterne fortune”… Tutta la sua arte si basa sulla continua critica alla disumanità, al fatto di non accorgersi di non dover correre dietro al denaro ma più al sociale. Io leggevo in lui la volontà di essere utile. Lui era uno sanguigno e un intellettuale.
Leggendo gli “Scritti sull’Arte” di Baj, qualche tempo fa, ero piuttosto colpita dal suo discorso sulla mercificazione dell’arte e su Warhol in particolare. Ora, siccome ho sempre avuto la sensazione che il Warhol italiano, ovvero Schifano, non fosse certamente da meno, mi incuriosiva immaginare quale potesse essere il rapporto tra Baj e Schifano… Due geni.. purtroppo però, uno dei due, per stupidaggine, per indole si è distrutto. Perché Schifano era dotatissimo dalla natura, ma credeva che con la droga sarebbe riuscito ad arrivare ancora più in là. Era talmente bravo che riusciva a fare delle cose che sono incredibili. Però io un altro Schifano – quando è finito il periodo di sette anni del nostro sodalizio – non lo avrei più voluto. Ne avrei avuto paura. Perchè mi ha distrutto, io avevo tanti artisti e non potevo dedicarmi a una persona sola. Lui invece aveva bisogno di una balia. Quelle poche volte che l’ho visto dopo gli anni Settanta mi insultava sempre. Mi diceva: “Tu mi hai ucciso, perché se fossimo restati assieme io non sarei finito così, perché ti davo ascolto, e invece guarda come sono conciato…”
E invece il rapporto tra Schifano e Baj? Niente… Baj stimava Schifano. Ma non gli interessava, per lui Schifano agiva in un mondo totalmente illogico. Schifano amava tutti ma non amava nessuno.
Lei però ha un ricordo molto intenso e vivo di Schifano… … a questo punto Marconi mi dice: ”Vuol venire con me un momento?”, e visibilmente emozionato mi porta in una delle stanze della Fondazione. In fondo in un angolo vedo un quadretto con una foto, in alto a sinistra c’è Schifano. Marconi lo indica e mi dice “Questo è Schifano, questo è un quadro che io ho, guarda qua… era matto da legare.
Intervista a Roberta Cerini
Alla Fondazione Marconi è esposta questa grandissima tela a carboncino, “La Famiglia Baj”… Sembra sottolineare l’importanza che la propria famiglia ha anche per l’Artista, il che è una cosa decisamente rara. Qual era il vostro rapporto con l’Enrico Baj artista? Non credo che in famiglia cambi molto. A parte il fatto che non conoscendo altri rapporti familiari se non quelli con un artista, non so se ci siano delle differenze. Comunque è stato un rapporto normalissimo, genitori e figli, anche con i nostri piccoli scontri naturalmente. Devo però dire una cosa, e credo che questo gli venisse proprio dalla sua educazione borghese: lui aveva molto il senso della famiglia. Il senso proprio dell’istituzione familiare, della solidità della famiglia. Questo sicuramente. Purtroppo, oggi il valore della famiglia è un po’ andato perduto. Il fatto che la famiglia conti, che si costruisce e che si mantiene unita. Oggi è molto diverso, mi sembra che non si facciano granché sforzi in questo senso.
Lei ora cura l’archivio di suo marito. Leggevo però che raccontava di averlo aiutato, ad esempio, a realizzare l’opera del funerale dell’anarchico Pinelli. Veniva spesso coinvolta nella realizzazione delle sue opere? Beh, ma guardi che il quadro era molto grande… lo abbiamo aiutato tutti. Chi passava di lì, attaccava il suo pezzettino. E qualche volta qualche manovalanza di incollaggio l’abbiamo fatta, ma niente di creativo, anche perché io ne sono proprio la negazione. Ancora adesso se i miei nipoti mi chiedono di fare un disegno viene fuori un disegno come quello dei bambini delle elementari. Non ho mai capito come lui riuscisse… mi è sempre rimasto questo senso di mistero di come lui tac- tac- tac, in quattro e quattro otto mettesse in piedi una cosa fantastica. Quindi, pura manovalanza. Al massimo mi chiedeva “ti sembra che questo colore vada meglio di quest’altro?” ma mai più di così.
Baj amava le muse. Lei è mai stata una musa, per suo marito? Ah beh questo bisognava chiederlo a lui, io non lo so. Potrebbe essere… mah, sa, le muse inquietanti magari… (ride). È difficile dirlo, chiaramente poi vivendo vicino ad una persona per forza di cose in qualche modo si esercita un qualche tipo di influenza. Ma da lì ad essere una musa ispiratrice… Poi non lo so se Baj avesse delle muse ispiratrici, o se l’ispirazione fosse dentro di lui. Forse lo ispiravano di più i materiali, gli avvenimenti che le persone. Molto spesso era proprio dalle cose che aveva davanti che gli veniva l’idea, magari aveva lì una frangia o un fiocco in un certo modo… La cosa era ambivalente, cioè lui sceglieva i materiali ma poi erano i materiali stessi a suggerirgli le idee. Era una persona che amava fare, quindi lui faceva e bisognava sempre essere pronti a fare. Lui era uno che diceva una cosa e la faceva immediatamente, e devo dire che su questo io sono molto simile a lui.
A questo punto, non posso che chiederlo anche a lei…com’era l’uomo Enrico Baj? Era un uomo molto attivo, uno che non stava mai fermo. Ecco, questa era la sua caratteristica principale secondo me. Poi parlava di futurismo statico, di contemplazione… ma in realtà lui era uno che se non era in movimento fisico era in movimento mentale. Era sempre lì che pensava anche quando non lavorava. E poi, soprattutto, era un uomo molto libero. Questo era l’altro suo aspetto più notevole, quello di essere libero da tutto, di non essersi mai fatto condizionare da niente. Ha sempre deciso lui quello che voleva essere e che voleva fare. Non si è mai fatto condizionare dall’ambiente, dal mercato e da tutte quelle cose che a volte condizionano la vita di un artista. Le sue scelte sono sempre state liberissime, su questo non ho dubbi.
A Palazzo Reale, fino al 16 febbraio 2014, è in esposizione la mostra “Pollock e gli irascibili“, che porta a Milano cinquanta capolavori di quegli artisti, appartenenti alla cosiddetta “scuola di New York”, che per la prima volta – tra la fine degli anni Quaranta e il decennio successivo – spostarono oltreoceano il baricentro dell’arte.
Il nome “irascibili” deriva dal celebre episodio di protesta nei confronti del Metropolitan Museum – nel 1950 – per l’esclusione dalla mostra sull’arte contemporanea americana, e peraltro ben sintetizza l’attitudine dei protagonisti dell’Espressionismo Astratto. La mostra ha come curatore – oltre a Carter Foster del museo Whitney di New York (da dove provengono le opere) – Luca Beatrice. A lui rivolgiamo alcune domande, per poter cogliere meglio alcuni aspetti di Pollock e degli “irascibili”.
Pollock svolge il caos sulla tela. Peraltro un caos apparentemente guidato da meccaniche divine, o se preferisci naturali, secondo alcuni studiosi. Secondo te il risultato presente sulle sue tele è casuale o causale? È casuale e causale insieme, nel senso che lui organizza la tela come pendici per movimenti centripeti e centrifughi che si possono abbastanza facilmente individuare studiandone le composizioni, ma al contempo lascia evidentemente molto spazio al caso e alla capacità di meravigliarsi per delle soluzioni impreviste.
Da un altro punto di vista, il caos di Pollock va di pari passo con quello portato nello stesso periodo dal Rock and Roll. “Liberami dal vecchiume”, come cantava Chuck Berry… quali sono le origini sociali comuni a questi fenomeni? Innanzitutto c’è una ragione biografica nella storia di Jackson Pollock, che sicuramente è stata una persona -ancor prima che un artista – che ha dovuto combattere per tutta la vita contro la psicosi e l’alcolismo, e comunque con una ribellione di fondo che gli era propria. Nel caso del Rock and Roll tutti quanti sono giovani, ribelli, creano una spaccatura con la musica delle generazioni precedenti e cercano di inventare qualche cosa di nuovo. Ma se c’è una cosa che accomuna queste due esperienze, pur in ambiti molto diversi, è il senso del ritmo. Il ritmo diventa a questo punto l’elemento per far muovere intere generazioni che trovano (quelli più colti) nella pittura di Pollock la profonda differenza rispetto anche soltanto all’informale astratto europeo. Così come il Rock and Roll da Elvis in poi, ma non c’è soltanto lui, si distacca totalmente rispetto alla musica delle generazioni precedenti.
Ciò che accomuna in gran parte gli artisti “irascibili”, spesso piuttosto diversi per stile, mi pare essere una sorta di furia esplosiva volta a raggiungere la totale libertà. È così? E che altro c’è? Se c’è una cosa interessante dell’espressionismo astratto americano è proprio questo fatto di non essere un movimento. Quindi, di racchiudere una serie di esperienze molto diverse tra di loro, che vanno dal dripping pollockiano fino all’astrazione quasi minimalista, preminimalista di autori come Rothko o soprattutto di Barnett Newman che è il più teorico del gruppo, o come i Color Fields di Morris Louis, e via dicendo… Quindi è di fatto una pittura che già sente arrivare in maniera molto rapida il senso della crisi, il fallimento di una teoria della certezza che l’aveva un po’ invasa negli anni 50. La cosa curiosa è che tra la morte di Pollock, che avviene nel 1956, e invece Monochrome Malerei, la mostra che si tiene a Leverkusen in Germania – praticamente il trionfo della pittura monocroma -, passando per esperienze come quelle di Fontana per fare un esempio non americano, passano veramente pochi anni. Vuol dire che Pollock rappresenta il punto massimo ma anche la coda finale di un’esperienza che si era già in parte consumata negli anni 40.
Laddove ci sia l’assenza del tecnicismo e la totale astrazione, cosa distingue un’ opera sinceramente grande da un esercizio di stile, un manierismo, una posa, piuttosto che proprio un brutto quadro? Intanto secondo me lo Zeitgeist, cioè lo spirito del tempo, perché è chiaro che l’informale – chiamiamolo informale se vogliamo parlare di Europa, o espressionismo astratto se vogliamo parlare di America – è stato a lungo considerato l’arte degli anni ’50, nella fattispecie in America l’arte per eccellenza di quel periodo. Però va detto che da una parte abbiamo un periodo storico che sente proprio come un’esigenza questa esplosione incontrollata di forme o di colori, questo andare verso la totale spaccatura dell’immagine realistica che a questo punto non è più centrale nell’esperienza della pittura ma anzi marginale e ormai quasi ininfluente. D’altro canto, invece, col passare degli anni ritengo che la pittura astratta, l’informale, l’informale segnico, l’informale gestuale, diventino un po’ delle scuole, delle grandi maniere. Che, spesso, più ci avviciniamo ai nostri tempi e più nascondono a mio avviso la quasi totale incapacità di realizzare un quadro. Quando le cose sono portate oltre il loro tempo massimo rischiano (questo in qualsiasi ambito evidentemente) di diventare maniera. Però se in Europa e in Italia in particolare queste forme ormai hanno lasciato il posto ad altre esperienze completamente diverse, lo stesso non si può dire dell’America dove tuttora ci sono generazioni di pittori che continuano a dipingere con questo tipo di stile e di linguaggio. Si vede che proprio è connaturato all’esperienza della cultura americana.
Al “PArCo – Galleria d’arte moderna e contemporanea di Pordenone”, dal 14 settembre al 17 novembre 2013 è in esposizione “Caos Apparente”, il nuovo lavoro di Gianluigi Colin. Nato a Pordenone ma ormai milanese di adozione, Colin è artista nonché art director del Corriere della Sera. In “Caos Apparente”, come spiega l’artista stesso nell’intervista che segue, è chiave di lettura fondamentale della sua opera la convergenza tra l’arte e l’informazione. All’interno della mostra, uno specifico “Obbligatorio Fotografare” suggerisce ai visitatori di fissare con fotocamere e cellulari la propria individuale percezione delle opere per poi condividerla in rete, diventando essi stessi protagonisti di un progetto artistico.
Marina Abramovic sostiene che l’interazione col pubblico, rendendolo parte dell’opera, sia sempre più irrinunciabile. Quale ritiene sia l’importanza dell’obbligo di fotografare “Caos Apparente”, nel contesto del progetto stesso? Ciò detto, aggiungo solo che – dato che ogni volta che vado alle mostre devo cercare di nascondermi dai custodi per scattare qualche innocente foto senza flash – per me è stato comunque un gesto liberatorio… Questa necessità irrefrenabile di fotografare alle mostre la provo sempre anche io. E sono felice quando mi ritrovo in alcuni posti, come l’Hermitage o la National Gallery, in cui è permesso farlo. Inoltre, trovo sia bellissimo il rapporto con il personale che lavora nei musei o nelle gallerie, come per esempio i custodi: è interessante il dialogo che si può venire a creare attraverso la relazione del tuo sguardo da un lato con l’opera d’arte, e dall’altro con le persone che invece si ritrovano quotidianamente a “subire” le opere, vivendole non per il piacere di contemplarle ma come momento di lavoro. Questa è un’altra riflessione che mette simbolicamente in luce il rapporto di fruizione con l’opera d’arte. Chiaramente, nella Body Art, nelle performance di Marina Abramovic come di tutti gli altri, l’elemento essenziale sta proprio nel rapporto con il pubblico: ovvero, una performance ha senso non tanto e non solo per la riproduzione che poi verrà fatta della stessa, ma essenzialmente per la sua emozione, percezione e leggibilità. Sostanzialmente, è come andare a teatro: quindi l’interazione con il pubblico è fondamentale. Per quanto riguarda me, molti dei miei lavori sono stati realizzati e svolti proprio in costante relazione con il pubblico. Questo vale nel caso di “Caos Apparente”, ma ancor di più in quello di un lavoro di qualche anno fa, “Vie di Memoria”, in cui chiedevo alle persone di darmi – appunto – una parte della loro memoria privata, che fosse una fotografia, una lettera o un documento. In quel caso ho tracciato e poi elaborato davanti al pubblico queste memorie. Ho portato questa performance a New York, San Pietroburgo, Buenos Aires oltre che a Milano, Roma, Napoli e Pordenone, e in ogni situazione da un lato certificavo la memoria singola di ogni persona, ed al contempo elaboravo ognuna di esse, mettendole in relazione tra loro e tracciando così una memoria collettiva. Per me, quindi, il dialogo con il pubblico rappresenta un coinvolgimento non soltanto emotivo ma soprattutto concettuale: stimolo un gesto attivo da parte di chi entra in una mostra a guardare e a osservare. Nel caso di “Caos Apparente” questo accade attraverso il fatto di scattare una fotografia, perché tale atto porta a far sì che si passi oltre alla semplice percezione. Peraltro, attraverso lo sguardo rivolto a 30.000 fotografie, il visitatore crea un proprio percorso personale, diventando egli stesso artista e in qualche modo protagonista di questa installazione.
A proposito delle 30000 fotografie, guardando questo vortice di immagini – che poi appartengono alla nostra conoscenza quotidiana, alla cronaca recente che ben conosciamo, e che in questo contesto vengono poste in questo modo a costituire un’opera – mi sono domandata se la loro collocazione fosse casuale, e quanto lo fosse. Guarda… la nostra vita è frutto di incroci di situazioni casuali, ma di fatto alla fine nulla è davvero casuale perché la costruzione della nostra esistenza passa attraverso le nostre scelte. E anche questa grande installazione, con queste trentamila fotografie, rappresenta una metafora del nostro vivere – per non dire subire – il caos della comunicazione e delle immagini. Al tempo stesso, però, è anche un caos dentro il quale – e anche qui sta la definizione di “apparente” – ognuno ritrova il proprio percorso personale. Ho collocato le immagini in modo casuale in alcuni casi, mentre in altri ho voluto accostarne alcune ad altre specifiche proprio allo scopo di sollecitare un metalinguaggio che portasse ad un pensiero. Che è poi esattamente il pensiero che hai fatto tu.
Quali sono gli accostamenti “voluti”? In certi casi ho voluto accostare alcuni protagonisti legati da un particolare aspetto: ad esempio, ho messo insieme Obama, il Papa, la Merkel, concentrando delle aree in cui la rappresentazione del mito del potere fosse più precisa. In altri ho indugiato invece sul tema della leggerezza, oppure su ciò che in qualche modo noi subiamo, come questo tsunami di immagini sul calcio. Che poi io dico “subiamo” perché ritengo che il calcio in molti casi sia diventato davvero una sorta di grande droga che richiama i panem et circenses, perchè non c’è più neanche il piacere del gesto atletico ma c’è invece tutta una costruzione di speculazioni economiche e di abbassamento delle coscienze.
Come dice Gillo Dorfles, l’arte non può non fare i conti con i mutamenti della società, e questo suscita nell’artista una tendenza di rivolta quando non addirittura di sovversione. Questo specialmente dopo il secondo dopoguerra, ovvero da quando l’informazione è diventata molto presente, potente e prepotente – penso a un Cartier-Bresson, archetipo del fotogiornalista ma soprattutto artista. Dato che i mezzi di comunicazione ci fanno pervenire delle informazioni che probabilmente sono state mediate, è realmente possibile fare al contempo arte e vera informazione, ovvero utilizzare queste informazioni mediate in un contesto artistico che dovrebbe essere immediato? C’è una definizione bellissima di Pablo Picasso: “L’arte è una menzogna che dice la verità”. In questo senso, quello che personalmente io tento di fare è raccontare attraverso la metafora una grande verità. Questo mare di immagini estrapolate dal giornale è un racconto metaforico di una verità; ovvero, in sé non è verità, ma paradossalmente al contempo lo è, poiché si tratta del racconto della nostra contemporaneità, in cui noi non siamo più capaci di vedere, perché persi dentro l’assuefazione del guardare, perché il nostro sguardo è saturato. Ovviamente io non do soluzioni, ma l’intento è quello di invitare a vedere piuttosto che a guardare: perché la differenza è che il semplice atto del guardare porta ad una visione superficiale, mentre vedere significa coinvolgere anche la coscienza della percezione.
Sono rimasta personalmente piuttosto colpita dal suo lavoro, in “Presente Storico”, in cui mette a confronto immagini di reportage storiche con quadri memorabili del passato, dimostrando come ci sia una sorta di ricorso storico di certe situazioni e delle relative immagini. Ma secondo lei questo capita solamente per immagini e situazioni tragiche? “Presente Storico” è stato il primo lavoro che ho presentato nel 1998 all’Arengario: in realtà non documenta solo fatti tragici, c’è infatti ad esempio il bacio di Hayez accostato alla famosa foto di Eisenstaedt che immortalò il bacio tra un marinaio al ritorno dalla guerra e un’infermiera… un gesto d’amore, quindi, seppur legato ad una precedente tragedia. Un’emozione assolutamente positiva. La nostra vita è fatta anche di momenti frivoli, o di tenerezze; ma i microcosmi delle nostre vite quotidiane rientrano in maniera armonica nel macrocosmo della grande Storia, e ne costituiscono una parte fondamentale. E questo essere dentro la Storia ci può permettere di capirla. Tutto il mio lavoro pone la sua attenzione sul valore della memoria, sul senso del tempo, oltre che sul valore dello sguardo. La memoria infatti non come “operazione nostalgia”, ma come luogo ove rivolgere lo sguardo per capire dove poter andare. Non devo essere ovviamente io a dirlo, ma il mio è un tentativo di svolgere un impegno civile: credo molto nel senso di responsabilità dell’artista e credo che ci debba assolutamente essere un’estetica, ma che quello che sia davvero essenziale sia il contenuto. Una volta, ad una mostra, chiesi a Giorgio Marconi se gli piacessero le opere di un artista. Marconi mi rispose indirettamente ed ironicamente, dicendomi “Quando io guardo un’opera voglio vedere un perché”. Trovo che abbia ragione. Ed il mio intento è esattamente questo: cerco un perché, e soprattutto cerco di stimolare la gente nella ricerca di un perché.