Lectio magistralis di Philippe Daverio al Museo del Novecento. Intervista
Nuovo appuntamento a cura di Sisalpay (clicca qui per il precedente) al Museo del Novecento, corollato dalla lectio magistralis di Philippe Daverio, direttamente dal balcone del museo che affaccia sulla piazza del Duomo.
Trasmessa anche da un maxi schermo allestito per l’occasione, la lezione – dal titolo di “Grandezza e miserie della vita novecentesca” – è stata seguita da 3.000 persone che hanno poi potuto accedere al museo, aperto eccezionalmente per la serata.
L’iniziativa è stata un successo, oltre 2.000 persone hanno utilizzato l’ingresso notturno gratuito per visitare il Museo.
Abbiamo rivolto a Philippe Daverio alcune domande.
Il titolo della mostra che è stata fatta qui al museo del 900 mi ha subito evocato i suoi libri, in particolare il “Museo Immaginato”. Quanto si avvicina alla sua idea?
Il tentativo di mettere insieme degli elementi per raccontare una storia è fondamentale. Un museo deve raccontare una storia, e purtroppo molto spesso i musei non ci riescono. Oppure raccontano storie che capiscono solo i curatori, che relazionandosi costantemente con quelle opere riescono ovviamente ad inventare una storia, ma il fatto che il pubblico che interviene sia in grado di percepirla è tutt’altra cosa. Tutto il lavoro della museologia sta in questo: riuscire a trasformare il materiale a disposizione non in una sola, ma in svariate storie che possano essere lette da svariate teste. È un concetto molto americano, con un racconto che sia al contempo high & low, che risvegli la curiosità nella persona informata e operi un coinvolgimento anche nella persona che è appena arrivata lì. Non è mica facile.
Perciò la storia da raccontare è fondamentale…
Assolutamente sì: le opere devono raccontare la storia. Nei musei italiani lo si fa poco, e se una persona senza l’adeguato training va agli Uffizi non riesce a capirli.
La narrazione avviene a seconda di come si pensa la mostra. Noi abbiamo ancora molto l’abitudine di considerare il museo una sorta di teca di conservazione che esiste perchè serve a tenere le cose, quasi come fosse un armadio. Il museo deve essere questo, ma deve anche e soprattutto essere altro; e dovrebbe inoltre essere in grado di generare eventi regolari in modo da creare con il pubblico una sorta di long term relationship: ovvero, io ci vado regolarmente, per me è una bella abitudine, ci vado e ci torno perchè l’ho visto e mi piace.
Quando io inventai Palazzo Reale lo feci con queste premesse. Purtroppo, i miei successori non hanno più fatto passi in avanti. Non si dovrebbe andare a vedere una mostra ogni tanto, ma poterci tornare per rivedere le stesse cose e di volta in volta qualcosa di nuovo, perché è arrivato qualcosa di collegato. Un po’ quello che è successo qui con la donazione dei Bertolini.
Quindi ritiene che iniziative come questa di Sisalpay siano importanti?
Hanno un’enorme utilità. Perché è comunicazione: non è detto che tutti gli ospiti invitati questa sera siano già stati qui, come non è detto che tutti ci vengano regolarmente. Ecco perché un’altra cosa importante è che una struttura come questo museo abbia una serie di meccaniche di animazione regolare. E non solo il privato, come SisalPay, ma soprattutto il museo stesso deve proporre iniziative come questa, e deve essere in grado di trovare esso stesso gli sponsor. Questa sera SisalPay ha fatto un gesto apprezzabile, ma normale, non incredibile, se lo compariamo con quanto succede altrove: a Monaco, a Berlino, a Parigi succede regolarmente che un gruppo privato, nelle operazioni delegate all’immagine dell’azienda, si interessi a un fatto museale. Ma ribadisco, dall’altra parte, quella ufficiale, ci dovrebbe sempre essere il museo che operi in questo senso di norma.
Io mi sono molto occupato di questo argomento, ed è quello che poi mi ha spinto a lavorare su Milano. Ad esempio, i musei di Chicago hanno un fundraising office con 160 dipendenti e all’epoca in cui io ci ho lavorato recuperavano 60 milioni di dollari all’anno! Questo accadeva perché 160 persone ogni mattina andavano a fare quel mestiere, e seppure fossero in concorrenza con altre 100 persone che facevano lo stesso lavoro per l’università, riuscivano nell’intento.
Perché in Italia non lo si fa?
Certo, anche in Italia alcuni si impegnano nella raccolta fondi. Lo fa la chiesa, lo fa il volontariato. Anche in Italia lo sappiamo fare, anzi, siamo stati noi ad inventarlo. Il primo fundraising dell’Occidente, della storia dell’umanità, è stato fatto a Milano nel 1451: la Festa del Perdono per la costruzione della Cà Granda.
Non è vero che sono cose in cui non siamo competenti. È che noi siamo lentamente implosi, e rispetto al resto delle comunità d’Occidente non abbiamo più capito niente. Di chi sia la colpa non lo so, non è mai colpa di nessuno ed al contempo è colpa di tutti. Certo, l’Italia politica non ha questi problemi, se ne frega. L’Italia privata invece lo fa in altri settori: lo fa nel campo della medicina, della sanità, quelli della Lega per la lotta ai tumori o a qualsiasi altra grave malattia; lo fa nel volontariato, lo fa per il terzo mondo… Il fatto è che in quei casi lo si fa in ambiti di autonomie di libertà. Invece, in quest’altro ambito non lo si fa perché la controparte è lo Stato o il Comune. Se noi domani facciamo un committee per la salvaguardia di Palazzo Reale, l’Assessore si offende. La politica dovrebbe intraprendere decisamente una strada e imporla, ma non succede mai. Io, per salvarmi la coscienza, sono riuscito per almeno due volte a fare delle innovazioni giuridiche che sono poi diventate stabili. Nel ’94, ho inventato le fondazioni per i teatri d’opera: all’epoca avevo la responsabilità del Teatro alla Scala e in quel periodo c’era stato un grande taglio dei finanziamenti pubblici. Feci una riunione coi 13 sindaci delle città dei teatri d’opera e col Ministro dei Beni Culturali e gli dissi che avevo la soluzione, ed in seguito con la Finanziaria venne approvata la mia proposta. Queste fondazioni esistono tuttora, anche se funzionano ancora male. Poi ho inventato i co.co.co., perché mi stavano per chiudere le scuole milanesi; feci una riunione con tutti i sindacati, e riuscimmo a risolvere la situazione. Quindi ci sono delle cose che si possono fare.
Qual è lo stato dell’Arte a Milano?
A Milano c’è un dato nuovo, oggettivo, che è dovuto alla competizione delle fondazioni private, che stanno dandosi un po’ da fare con passione e ingenuità al contempo. Miuccia Prada ci mette tutta la sua passione, ma poi capita che lasci gestire le cose a persone sbagliate. I Bertelli sono molto orientati sul trendy: a me piace molto, ma questo dovrebbe essere gestito da persone più adeguate.
Qual è l’ostacolo alla reale fattibilità di un museo ideale?
Un museo non si fa in un quarto d’ora, si fa con un piano ventennale andando ad investire in aree dove gli altri non hanno investito; si fa con l’abilità delle direzioni, si fa con la capacità di attrarre le donazioni. A Milano ci sono almeno trenta persone che sarebbero onorate di cedere qualcosa, se in cambio avessero l’onore della cessione. Però per ottenere questo risultato ci vuole qualcuno in grado di farlo… Kirk Varnedoe è stato per anni il boss del Moma, era uno di ottima famiglia, arrivava con una moto di una grossa cilindrata, abbronzato e fico e portava fuori le signore a cena e le conosceva tutte. Ci vogliono le persone giuste. In Italia manca la formazione: infatti l’unica cosa che mi pento di non aver fatto negli anni passati, quando ero a capo delle scuole comunali milanesi, è stato riuscire a fare una scuola di formazione per amministratori civici.
Il nostro sistema culturale è conseguenza anche della fragilità di chi è stato inserito. Adesso il povero Ministro Franceschini è caduto nella trappola di prendere sul mercato internazionale dei direttori di musei impreparati a rapportarsi con la realtà italiana. Certo, le risorse interne non sono eccezionali, ma pur sempre più adeguate alla nostra situazione.
Certo, se penso a che cos’era la generazione precedente alla mia… Quelli un po’ più vecchi di me nell’ambito ministeriale erano dei califfi, Carlo Bertelli era un intellettuale rispettato. Nicola Spinosa mi portò a fare il primo convegno a 27 anni alla Yale University… Penso poi a Emiliani a Bologna, ad Antonio Paolucci che poi ha anche fatto il Ministro del Beni Culturali… Ciò che è venuto dopo è colpa di una gestione fragile. Quelli che hanno preso ora erano quelli disponibili sul mercato e che non avevano nulla da fare. Li conosco, brava gente che in un ufficio con tante persone avrebbero senza dubbio un ruolo da svolgere, se avessero un capo.
E come si fa a reclutare le persone giuste?
Con la volontà di un disegno amministrativo.