Intervista a Pietro Ruffo. L’intelligenza che si diverte
Lui si definisce semplicemente “disegnatore”. Ma l’arte di Pietro Ruffo è senza dubbio più complessa: la tridimensionalità la rende scultura, la progettualità è quella tipica dell’architetto (Ruffo lo è); l’approccio concettuale è quello di un ricercatore, uno storico, quasi un filosofo. E il risultato è estremamente poetico.
Il risultato degli ultimi dieci anni di lavoro di Ruffo, “Breve storia del resto del mondo”, è esposto a Catania, presso la Fondazione Puglisi Cosentino, fino al 10 luglio. E lo stesso Professor Emmanuele Emanuele, Presidente della Fondazione Terzo Pilastro – Italia e Mediterraneo, che cura l’evento, sottolinea che l’atteggiamento creativo di Ruffo è quello che Albert Einstein riteneva dovesse essere: ovvero, “l’intelligenza che si diverte”.
Abbiamo rivolto alcune domande a Pietro Ruffo.
Lei ha dichiarato che l’idea di libertà – analizzata da ogni punto di vista – è quello che unisce tutte queste sue opere, che si svolgono nell’arco degli ultimi dieci anni. Esiste una situazione ideale, in cui la libertà collettiva e quella personale riescono ad essere conciliabili?
Quella che mi fa è una domanda bellissima… Questa domanda è stata la base per una borsa di ricerca che ho vinto alla Columbia University, partita proprio da questo spunto: è possibile unificare questi due sistemi che si sono contrapposti durante la prima guerra fredda, ovvero l’ideale di una libertà collettiva come nel blocco dell’est e quello di una libertà individuale che contraddistingueva il blocco occidentale? Ho posto questa domanda ad alcuni filosofi, fornivano ognuno una ricetta diversa. Questo mi ha spinto ad attuare un progetto molto grande: quaranta interviste/ritratti di filosofi che arrivavano da tutte le parti del mondo per poter capire quale fosse la loro idea di libertà.
La cosa che è molto interessante riguardo al concetto di libertà è che più vai a fondo, più ti rendi conto che questo termine si allontana dalla tua comprensione. Nei momenti storici in cui i leader pensavano di sapere quale potesse essere una soluzione per rendere libero il popolo, si sono creati i regimi più autoritari del Novecento. Meglio non sapere cosa sia la libertà. Anche perché personalmente ritengo che non siamo abbastanza maturi – come popoli – per poterla gestire: il momento in cui noi sentiamo più fortemente il bisogno di libertà è quello in cui abbiamo dei nemici della libertà da combattere. Nella primavera araba, per esempio, tutti i ragazzi scendono in strada mettendo a rischio la loro vita, sentono questa idea di libertà fortissima perché lottano contro un despota che gliela sta negando. Quando invece devono creare una società libera e uguale per tutti, iniziano i problemi.
A parte la libertà collettiva… quella individuale e personale per lei da che cosa è rappresentata?
Come accennavo, noi siamo tutti nati in un paese molto libero, quindi la ricerca della libertà si complica ancora di più perché non sappiamo contro cosa lottare. Ecco quindi che spesso diventiamo dittatori di noi stessi, imponendoci delle regole estremamente dure per poi sentirci liberi: chi segue regimi alimentari molto rigidi, chi ha il culto del corpo e va in palestra in continuazione… Tendiamo a darci delle regole molto forti, visto che nessun altro ce le impone dall’esterno. Secondo me la persona che ha risposto meglio a che cosa sia la libertà è Khalil Gibran, quando sostiene che non sia altro che lo scappare da sé stessi, ovvero trasformare il proprio destino: la vera libertà è essere nato in un determinato ambiente sociale e cambiare completamente la tua sorte in vari modi.
Ciò che più mi colpisce del suo lavoro è la capacità di riporre al centro del gesto artistico il divertimento. E con questo rivendicare l’importanza della leggerezza – che l’arte può avere – e che se ben coniugata, come lei fa, rafforza il proprio messaggio. Forse questo accade perché il linguaggio del gioco è quello più immediato e universale?
Sicuramente è come una pianta carnivora che attira gli insetti con un buon profumo e una volta dentro se li mangia… Anche se io non cerco di fare delle trappole. Scherzi a parte, penso ci siano due aspetti importanti: il primo è che io faccio l’artista, e quindi per me è anzitutto importante che ogni lavoro abbia una sua composizione interessante. E questo comprende anche il divertimento, il piacere. Poi c’è l’aspetto più concettuale, se però ci si limita ad appendere un filo di cotone a una parete o ad attaccare delle fotocopie a un muro… Mah. A me piace che l’artista crei la trasformazione di un messaggio: l’opera deve innanzitutto avere una composizione interessante ed attraente, il concetto viene dopo.
Riguardo al gioco, è vero: l’artista dovrebbe essere il primo a divertirsi per interessare chi poi guarda il suo lavoro.
Io utilizzo anche un materiale molto delicato come la carta, con cui mi sono divertito a realizzare un aeroplano vero o un carro armato, ed è veramente come un gioco: come un bambino che dice “voglio fare un aereo di carta!”, ma lo vuole fare vero… e lo fa. Poi, è chiaro, per farlo serve un lavoro importante – noi ci abbiamo messo sei mesi in dieci persone per fare l’aeroplano – ma è fondamentale che lo spettatore, nel guardarlo, non senta la fatica e l’operosità di chi ci ha lavorato. Deve restare la leggerezza.
Volendo essere schematici, le sue opere potrebbero essere definite pittura, ancor più scultura per via della tridimensionalità: senz’altro si vede la progettualità tipica dell’approccio architettonico. Io però, dovendo dare una personale definizione, le sento più simili a un atto poetico. Qual è il suo personale punto di vista in merito?
La ringrazio molto per l’ “atto poetico”… Quando mi chiedono che lavoro faccio, io rispondo “il disegnatore”, perché tutti i miei lavori sono disegni, piccoli o grandi, bi o tridimensionali, ma sempre disegni. Gli strumenti che uso sono molto tradizionali: penne, matite, acquerelli, taglierini… quello che cerco di fare è usare questi strumenti in un modo nuovo. Come mi definisco? Un disegnatore, ma anche un ricercatore, perché davvero gran parte del mio lavoro consiste nello stare dentro alle biblioteche a studiare dei temi che mi appassionano. I risultati, più che essere una sintesi di quello che credo di aver capito, sono degli appunti… soltanto che i miei appunti non sono scritti, ma disegnati.
C’è tuttora discordia nel dare una definizione univoca del termine “Geopolitica”: chi pone l’accento sull’aspetto sociale, chi su quello economico, chi su quello fisico e chi invece su quello storico/politico. Qual è il suo personale punto di vista sulla questione?
Questa è difficile. Beh, la prima cosa che mi viene da dire è che tutte queste cose non possono prescindere l’una dall’altra e forse la cosa che penso più di ogni altra è che veramente abbiamo combinato grossi guai. Non voglio essere eurocentrico, però è evidente che tutto ciò che abbiamo fatto negli scorsi secoli ha creato la situazione attuale. Quando tu vai in una nazione e la dividi con una riga e una squadra su una mappa geografica senza far caso ai popoli che ci vivono e ai meccanismi che si sono creati nella storia e pensi che il tuo modus sia quello giusto, purtroppo puoi fare solo un disastro. E si pone la domanda: sono peggiori le soluzioni che adottiamo per trovare rimedio a queste nostre colpe o il lasciar fare i popoli nelle loro nazioni senza metterci troppo il naso? Ciò detto, la geopolitica è soprattutto un’ analisi attenta della storia che fornisce delle risposte su quello che sta succedendo oggi e – ahimè – molte di queste risposte hanno un imputato principale che siamo noi. Siamo colpevoli e responsabili anche noi, come chi ha effettivamente compiuto certe azioni anni fa.
In merito a questo, e ai temi sociali che affronta, c’è una riflessione a cui vuole portare il pubblico? Pensa che l’arte possa essere d’aiuto?
Sì. Se mi chiede cosa debba fare l’arte, non lo so. Se mi chiede cosa possa fare l’arte, la risposta è sicuramente “far pensare”. Quando ho affrontato un tema delicato come quello della questione palestinese ho avuto delle discussioni con il rabbino capo di Roma, con le comunità ebraiche di New York e Londra, che hanno molto arricchito il mio percorso. Amo parlare con persone che difendono fortemente il loro pensiero, e che a volte hanno cambiato opinione sul mio lavoro. A New York volevano far chiudere il museo dove era esposto il mio carroarmato (un’opera che tratta della questione, esposta anche a Catania, NDR), e alla fine volevano donarlo al museo di Tel Aviv. Nel dialogo poi si cambia opinione. Non voglio darmi dello sciamano, ma è come se l’artista facesse un lavoro in maniera più o meno inconsapevole, e poi questo lavoro viene collocato da qualche parte e cessa di diventare suo, si anima di vita propria nella discussione con le altre persone.
Progetti nel futuro immediato?
Vorrei provare a continuare col mio lavoro, ma anche provare a stravolgerlo.
Il sogno nel cassetto è andare in Giappone, non ci sono mai andato e per me sarebbe un sogno. Loro per la carta hanno una venerazione.