“Il Ciclo di Arhat“, a Palazzo Reale fino al 7 settembre, è la prima mostra di Takashi Murakami in uno spazio espositivo pubblico italiano. Si tratta di opere recenti di pittura e scultura di grandi dimensioni, che raccontano la svolta del celebrato artista nipponico, definito nel 2008 dalla rivista Time il più influente rappresentante della cultura giapponese contemporanea.
E se consideriamo il fatto che il baricentro dell’arte si è già da tempo spostato con decisione verso quel lato del mondo, non è certamente una definizione da poco.
E Murakami è fortemente giapponese: con la sua opera vuole nobilitare la cosiddetta subcultura Otaku (che si rifà al mondo dei manga, degli anime e dei videogames) e sottolinearne l’importanza in relazione al Giappone contemporaneo; e, al contempo, intende promuovere il valore di un’arte del Sol Levante completamente autonoma da influenze occidentali.
E ci riesce benissimo: l’unica influenza che l’occidente ha esercitato sull’artista è il suo modo di rapportarsi col marketing (le borse da lui disegnate per Vuitton ne sono l’emblema più significativo) e con l’organizzazione (che per certi versi ricorda la Factory di Warhol, per altri gli studios Disney) del proprio lavoro e di quello degli artisti con cui si relaziona.
Un Arhat, nel buddismo, è un essere che ha compiuto il medesimo percorso del Buddha ed è a un passo dall’illuminazione: gli Arhat di Murakami, di fronte all’ineluttabilità del fato, intendono aiutare gli uomini ad andare avanti dopo i recenti disastri di Fukushima e del terremoto e maremoto del Tōhoku del 2011. Tre dipinti enormi, di oltre 10 metri di lunghezza, e la grande scultura Oval Buddha Silver sono ospitati – per nulla casualmente – nella Sala delle Cariatidi.
La mostra è curata da Francesco Bonami, a cui abbiamo posto alcune domande.
Com’è possibile che un artista di fatto lowbrow riesca ad arrivare ad esporre al MOMA o alla reggia di Versailles? In cosa si differenzia da tanti altri e quali novità ha portato rispetto a molti suoi contemporanei e simili?
Come tutti i grandi artisti, Murakami ha inventato il suo linguaggio. E si tratta di un linguaggio molto particolare, perché è riuscito a integrare perfettamente la cultura giapponese contemporanea – che ormai tutti conosciamo – con i miti della cultura giapponese antica. Il sorprendente risultato è una forma di pop art nipponica assolutamente unica. Credo che questo sia un segno inconfondibile, un’unicità che lo rende molto attraente per i musei di tutto il mondo.
Nel mondo occidentale c’è qualcuno che riesca a fare questo? Portare avanti l’arte classica ma rendendola in chiave moderna come fa lui, senza maniera e senza citazionismo? Non mi viene in mente nessuno…
L’unico che può fare testo è Charles Ray, lo scultore di Los Angeles che divenne particolarmente noto da noi per aver messo ‘Il Ragazzo con la Rana’ sulla Punta della Dogana di Venezia. Incredibilmente, gli rimossero l’opera perché era troppo contemporanea. Ma è esattamente questa la sua ricerca: lui tenta di capire come sia possibile fare una scultura classica calata nell’epoca contemporanea. In effetti, però, dalle nostre parti questi casi sono rarissimi. Credo che sia in gran parte dovuto al fatto che l’Occidente, a differenza del Giappone, non abbia mai avuto quei momenti di chiusura e di forzata autoriflessione – spesso in seguito ad eventi disastrosi e drammatici come fu ad esempio la bomba atomica – che hanno letteralmente resettato un modo di pensare e di vivere secolare. Un processo fondamentale per poter costruire linguaggi nuovi, armonicamente correlati alla propria storia passata. Noi – in particolare noi italiani, peraltro – ci rapportiamo col nostro passato in modo troppo nostalgico. Murakami non ha alcuna nostalgia ed è quello che credo sia la sua grande forza. La nostalgia porta a volersi identificare con il passato, e non invece ad interpretarlo, rielaborarlo, ricostruirci sopra.
La scelta di porre opere che testimoniano disastri nella sala delle cariatidi di chi è stata? Mi pare una scelta simbolica, ricorda quella di Picasso con Guernica del 1953…
Effettivamente è una scelta di quel tipo. L’abbiamo pensato e ne abbiamo parlato con Murakami: non volevamo fare una retrospettiva, e volevamo invece fare qualcosa di fortemente simbolico proprio in questo spazio. Glielo abbiamo mostrato, e lui ne è rimasto molto impressionato. Gli era piaciuta molto anche la biblioteca Ambrosiana, ma la Sala delle Cariatidi sembra fatta apposta per il discorso dell’artista: è uno spazio che rimase vittima di un incendio causato dai bombardamenti che ne distrussero il tetto e il pavimento di legno, è rimasto a lungo senza copertura, e gli agenti atmosferici hanno poi completato la distruzione. Un po’ quello di cui parlano le recenti opere di Murakami, della follia umana e della forza incontenibile della natura. Credo quindi che questi lavori, collocati in questo posto, assumano una forza particolare, superiore.
Secondo lei possiamo definire queste grandi opere di Murakami come un esempio di moderna arte sacra?
Direi assolutamente di sì. L’arte religiosa nasce per confrontarsi con i misteri del nostro mondo. Lui prima faceva un’arte molto leggera, piatta e “superficiale”, che lui stesso chiamava “superflat”, ovvero superpiatta; adesso, invece, ha creato un’arte molto profonda perché generata da una riflessione sulla realtà e sui disastri che hanno colpito la sua società e anche lui personalmente: Murakami viveva a Tokyo con la sua famiglia, e ha deciso di trasferirsi a Kyoto per evitare al figlio le possibili conseguenze delle radiazioni. Credo che abbia sentito veramente e profondamente, come tutti i giapponesi, il senso dell’ineluttabilità del destino. Per questo ha dovuto necessariamente cambiare approccio con la propria espressione, e di conseguenza anche stile. E questa nuova arte di Murakami è decisamente un’arte religiosa.