A Torino, a Palazzo Cavour fino all’11 gennaio 2015 , è allestita la mostra “Shit And Die”. Con questa mostra il curatore Cattelan riesce effettivamente a prendere il sopravvento sull’artista Cattelan. E questa affermazione serve per fare ammenda: chi scrive ha avuto difficoltà – a livello personale – a scindere le due cose (difficoltà espressa dallo stesso Maurizio Cattelan nell’ intervista che seguirà); ma non è difficile ammettere i propri torti di fronte all’evidenza. Ripensata, e quindi inevitabilmente rivisitata, la mostra rende certamente piena giustizia agli artisti esposti, e di conseguenza ai curatori tutti, ovvero Cattelan e le giovani Myriam Ben Salah e Marta Papini.
Il titolo della mostra – preso in prestito da un famoso slogan al neon di Bruce Nauman – allude, nel contesto, al presupposto “vizietto” di Cavour, che si dice amasse pasteggiare con le proprie deiezioni. E il tema dell’ineluttabilità del tempo che scorre e di cui le uniche certezze della vita paiono essere quelle del titolo è effettivamente ricorrente nel corso dell’intera mostra.
Un approccio non già pessimista, ma malinconicamente realista: la stessa sensazione evocata, nella terza sala, dall’allestimento di una serie di mobili dei torinesissimi Gabetti & Isola e destinati agli utopistici villaggi Olivetti, dal design estremamente funzionalista.
Una mostra dedicata a Torino, e quindi torinocentrica, ma che attraverso la città racconta quindi altro; e racconta anche “altrove”, come fa Pascale Marthine Thayou – artista camerunense che vive in Belgio – che recupera al mercato di Porta Palazzo oggetti ricollegabili alla propria cultura di origine, creando con essi un ambiente realmente globale. O come, in senso inverso, fa Stelios Faitakis, artista greco che glorifica Torino ricreando significative scene della storia cittadina come fossero icone (neo)bizantine.
Notevoli sono i “prestiti” alla mostra di importanti musei torinesi che alla morte (e alla vita!) sono in qualche modo dedicati: dalla forca dei condannati a impiccagione (e i vasi che i detenuti non ancora impiccati dipingevano mentre vi assistevano, certamente “shitting themselves”) del Museo Lombroso di Antropologia Criminale, allo scheletro di Carlo Giacomini, già direttore del Museo di Anatomia Umana (a cui donò il proprio corpo), che qui a Palazzo Cavour vigila nella sala dei ritratti dedicati ai torinesi illustri.
Il percorso della mostra si compie nelle due sale finali: dapprima lo studio del Conte di Cavour, incellofanato, che voci di corridoio ci dicono ricordi in effetti le precauzioni adottate durante lo svolgimento di certe pratiche (sebbene noi si voglia leggere diversamente l’installazione…), completo di foto del sommo Tolouse-Lautrec intento a fare la cacca: a ricordarci che la fanno proprio tutti. Ed infine, un’automobile che, con lo scorrere del tempo (e i metronomi a rendere questo scorrere sensibile), si accartoccia su sé stessa. E, devo dire, rende il senso dell’ineluttabilità palpabile e angosciante.
Ammetto di avere difficoltà, nel guardare una mostra curata da un artista influente e di personalità quale lei è, a non vedere la mostra stessa come un’opera a sua volta. Cosa posso fare per liberarmi da questo preconcetto?
La mostra è frutto di un lavoro di squadra con Myriam e Marta, l’abbiamo ideata e costruita insieme, a sei mani e tre teste. Se non bastasse questo, a Palazzo Cavour ci sono opere di oltre sessanta artisti, molti più bravi di me. Alla fine funziona un po’ come un tumblr: noi ci siamo limitati a scegliere le opere e a metterle in relazione nello spazio, dando vita a nuove associazioni visive.
Guardando ai tanti aspetti di Torino, che qui sono ben rappresentati, dubito che quello a cui lei si senta più vicino sia quello operaio – un mestiere che ha fatto, ma sappiamo che “Lavorare è un Brutto Mestiere”. Quale ritiene sia l’aspetto della città a lei più prossimo, e cosa pensa di Torino in particolare soprattutto dopo aver lavorato a questa mostra?
A volte la cosa migliore che ti possa accadere è un disastro, è questo il genere di potenziale che mi sembra di intravedere per Torino. È orfana prima del regno e poi dell’industria, ma può produrre ancora molto in termini di avanguardie culturali. L’energia produttiva del passato può essere trasformata, e mi sembra di vedere in certe manifestazioni, come Artissima o il Club to Club, questa volontà di reinventarsi. È una scommessa: ha così tanto da perdere che può vincere.
Shit and die. Il titolo della mostra implica una vita in cui valga ancora la pena sperare? (dalla famosa frase “chi visse sperando morì cagando”)
La speranza è un concetto che non mi appartiene, credo piuttosto che sia la volontà l’elemento indispensabile. Certo, tutti moriremo, ma nel frattempo ognuno dovrebbe cercare di far sì che il proprio tempo sia impiegato al meglio. Negli anni mi sono convinto che impegnarsi a raggiungere i propri obiettivi o a non raggiungerli richieda lo stesso sforzo.
“Dove osano le idee”: questo il claim del Salone Internazionale del Libro di Torino 2013. È confortante che, a dispetto della calma piatta espressa dai veri protagonisti del medesimo – ovvero i libri – un simile slogan sia stato fatto proprio da chi al Salone c'era, ma senza aver scritto nemmeno una parola sulla carta. Ma tant'è, è con piacere che osservo che sempre più spesso l'arte si ritagli (e mai verbo fu più calzante in questo caso) spazi da protagonista anche in contesti in cui dovrebbe farla da comprimaria. E qui bisogna ringraziare uno spirito sensibile com'è quello di Luca Beatrice, se siamo stati in grado di osservare – molto più in alto del livello del mare calmo delle pagine scritte, arrampicati su una scala sui cui ultimi pioli solo le aquile possono osare – la bellezza della nascita di un'opera d'arte in ogni sua fase. Creata, nel corso dei cinque giorni del Salone, dagli inarrivabili Sten e Lex. Che la carta hanno preferito ritagliarla, e che grazie alla sola punteggiatura nera hanno scritto, su un muro appositamente allestito, una pagina memorabile in questa fiera di pagine passabili. Non ho potuto non intervistare i due artisti, approfittando della rara occasione di poterli incontrare: generalmente infatti, come potrete intuire, cercano di allontanarsi il più presto possibile dalle sedi in cui le loro opere sono in mostra. Ed in tal senso, la mia prima domanda...
Che effetto fa realizzare un lavoro commissionato, e quindi lavorare con la gente che vi guarda alla luce del sole, per voi che quasi sempre siete costretti a compiere l'opera di notte e scappare?
Sten: Effettivamente è la prima volta che realizziamo un'opera davanti ad un pubblico così vasto. Ci vuole molta più concentrazione. Infatti, per abituarci a questo lavoro ci abbiamo messo un po'; ma una volta che ti concentri non ti distrai più e pensi solo al lavoro che stai facendo.
Lex: È totalmente diverso: qui abbiamo avuto tutto il tempo e la calma necessari per poter lavorare. Però in effetti già da tempo ci stiamo spostando verso lavori che sempre più spesso ci vengono commissionati, oppure partecipiamo a grandi festival... perché quello che ora ci interessa di più è realizzare grandi opere pubbliche.
Ma la commissione non snatura il vostro lavoro? Il muro e l'ambiente vi hanno sempre ispirati: ora dove sono? La street art è, appunto, “Street”: ma voi oggi siete invitati ad esporre a Londra, Shangai... Questo non ha cambiato la vostra arte?
Sten: Sì, cambia il contesto e manca sicuramente il paesaggio urbano che di solito è giá predefinito. E lavorare su un muro inserito in un ambiente in realtà è più complesso, perché implica un discorso di responsabilità estetica da parte dell'artista. In galleria il supporto è diverso, e lo è ovviamente anche l'approccio del pubblico. Ma il valore di un' opera può essere molto alto sia in uno studio, che in una galleria, che su un muro di strada. Quello che veramente è importante è il talento dell'artista: non tutta la street art è bella. Spesso i media prendono ad esempio artisti a casaccio, senza badare al loro effettivo valore.
Quindi non agite per il fascino del rischio, o come atto di protesta, ma il vostro è un puro gesto artistico?
Sten: Quando io ho iniziato mi interessava il fatto che a Roma non ci fossero immagini sui muri. In quel periodo a Roma non esisteva una cultura del figurativo nel contesto della Street, e il fatto di vedere anche solamente un piccolo ritrattino su un muro mi dava molta soddisfazione. Anche se ti parlo del 2001, e quel genere di lavori oggi non li rifarei, all'epoca aveva un senso profondo soprattutto per noi che li realizzavamo. Oggi lo facciamo in un'ottica diversa rispetto al passato. Anche la visione della Street peraltro è cambiata.
Lex: Noi non siamo stati writer, e in tal senso l'atteggiamento di “protesta” era del tutto assente. Inizialmente era soprattutto un approccio ludico: alcuni amici ci hanno insegnato la tecnica dello stencil, che a Roma era praticamente inesistente, ci è piaciuta e ci divertiva molto l'idea di uscire la sera e realizzare le opere. In questo senso, sicuramente un certo amore per il rischio non mancava. All'epoca io e Sten lavoravamo su soggetti differenti, ma uscivamo insieme in strada...
Ho capito! Quindi vi siete conosciuti facendovi il palo a vicenda, altro che affinità artistica!
Lex (ride): Bravissima, hai indovinato!
Vi è un po' rimasta, come alla maggioranza degli artisti Street, quest'ansia data dall'illegalità del vostro lavoro: infatti non vi volete far fotografare né riprendere nemmeno qui al Salone... o forse in gran parte questo è un escamotage per creare del mistero intorno all'artista?
Sten: Sì, c'è quest'aspetto. Hai ragione tu. Inizialmente questo atteggiamento era nato come modalità per tenersi protetti da questioni legali; però poi abbiamo notato che si viene a creare anche un'alone di mistero con la gente, e questo non ci dispiace. Ma per quanto riguarda noi, c'è anche il fatto che preferiamo che le persone apprezzino non tanto l'artista in quanto personaggio, ma l'opera d'arte in sé.
Comunque qui al Salone la gente vi ha visti...
Sten: Effettivamente noi abbiamo un approccio più soft rispetto a un Banksy che proprio non appare mai. Comunque, relazionarci coi media è qualcosa di molto difficile per noi, e cerchiamo di evitare radio e video.
A proposito del Salone, avete ricevuto qualche indicazione particolare, o subìto qualche forma di limitazione anche involontaria relativamente a quest'opera?
Sten: Devo dire che sono stati molto aperti a qualsiasi tipo di immagine noi volessimo proporre. Quindi è una commissione, ma in totale libertà. Noi inizialmente ci aspettavamo che ci chiedessero di realizzare il volto di uno scrittore. Invece no, e per noi è stato un vero piacere, perché di solito realizziamo immagini di persone anonime, e ritrarre uno scrittore famoso avrebbe significato una decisa deviazione dalle nostre tematiche abituali.
Insomma, sembra che l'Italia si stia sempre più aprendo alla Street Art, e questo evento ne rende testimonianza.
Lex: La Street Art purtroppo è ancora legata, soprattutto qui da noi, a dei preconcetti che la vedono come qualcosa di diseducativo, ed è un vero peccato. Ci sono molte strutture architettoniche che verrebbero sicuramente valorizzate con interventi da parte di validi artisti Street. In effetti, l'architettura ha ormai perso gran parte della valenza artistica che aveva nei secoli passati: la Street potrebbe contribuire a ravvivare i palazzi moderni, che sono troppo grigi. Ma questo proprio con una sinergia a livello progettuale, sin dall'inizio.
In fondo, cosa facevano gli artisti del Rinascimento che affrescavano le chiese, se non rendere vivi dei muri?
Lex: Esatto!