Intervista a Luca Beatrice sulla mostra di Pollock
A Palazzo Reale, fino al 16 febbraio 2014, è in esposizione la mostra “Pollock e gli irascibili“, che porta a Milano cinquanta capolavori di quegli artisti, appartenenti alla cosiddetta “scuola di New York”, che per la prima volta – tra la fine degli anni Quaranta e il decennio successivo – spostarono oltreoceano il baricentro dell’arte.
Il nome “irascibili” deriva dal celebre episodio di protesta nei confronti del Metropolitan Museum – nel 1950 – per l’esclusione dalla mostra sull’arte contemporanea americana, e peraltro ben sintetizza l’attitudine dei protagonisti dell’Espressionismo Astratto. La mostra ha come curatore – oltre a Carter Foster del museo Whitney di New York (da dove provengono le opere) – Luca Beatrice. A lui rivolgiamo alcune domande, per poter cogliere meglio alcuni aspetti di Pollock e degli “irascibili”.
Pollock svolge il caos sulla tela. Peraltro un caos apparentemente guidato da meccaniche divine, o se preferisci naturali, secondo alcuni studiosi. Secondo te il risultato presente sulle sue tele è casuale o causale?
È casuale e causale insieme, nel senso che lui organizza la tela come pendici per movimenti centripeti e centrifughi che si possono abbastanza facilmente individuare studiandone le composizioni, ma al contempo lascia evidentemente molto spazio al caso e alla capacità di meravigliarsi per delle soluzioni impreviste.
Da un altro punto di vista, il caos di Pollock va di pari passo con quello portato nello stesso periodo dal Rock and Roll. “Liberami dal vecchiume”, come cantava Chuck Berry… quali sono le origini sociali comuni a questi fenomeni?
Innanzitutto c’è una ragione biografica nella storia di Jackson Pollock, che sicuramente è stata una persona -ancor prima che un artista – che ha dovuto combattere per tutta la vita contro la psicosi e l’alcolismo, e comunque con una ribellione di fondo che gli era propria. Nel caso del Rock and Roll tutti quanti sono giovani, ribelli, creano una spaccatura con la musica delle generazioni precedenti e cercano di inventare qualche cosa di nuovo. Ma se c’è una cosa che accomuna queste due esperienze, pur in ambiti molto diversi, è il senso del ritmo. Il ritmo diventa a questo punto l’elemento per far muovere intere generazioni che trovano (quelli più colti) nella pittura di Pollock la profonda differenza rispetto anche soltanto all’informale astratto europeo. Così come il Rock and Roll da Elvis in poi, ma non c’è soltanto lui, si distacca totalmente rispetto alla musica delle generazioni precedenti.
Ciò che accomuna in gran parte gli artisti “irascibili”, spesso piuttosto diversi per stile, mi pare essere una sorta di furia esplosiva volta a raggiungere la totale libertà. È così? E che altro c’è?
Se c’è una cosa interessante dell’espressionismo astratto americano è proprio questo fatto di non essere un movimento. Quindi, di racchiudere una serie di esperienze molto diverse tra di loro, che vanno dal dripping pollockiano fino all’astrazione quasi minimalista, preminimalista di autori come Rothko o soprattutto di Barnett Newman che è il più teorico del gruppo, o come i Color Fields di Morris Louis, e via dicendo… Quindi è di fatto una pittura che già sente arrivare in maniera molto rapida il senso della crisi, il fallimento di una teoria della certezza che l’aveva un po’ invasa negli anni 50. La cosa curiosa è che tra la morte di Pollock, che avviene nel 1956, e invece Monochrome Malerei, la mostra che si tiene a Leverkusen in Germania – praticamente il trionfo della pittura monocroma -, passando per esperienze come quelle di Fontana per fare un esempio non americano, passano veramente pochi anni. Vuol dire che Pollock rappresenta il punto massimo ma anche la coda finale di un’esperienza che si era già in parte consumata negli anni 40.
Laddove ci sia l’assenza del tecnicismo e la totale astrazione, cosa distingue un’ opera sinceramente grande da un esercizio di stile, un manierismo, una posa, piuttosto che proprio un brutto quadro?
Intanto secondo me lo Zeitgeist, cioè lo spirito del tempo, perché è chiaro che l’informale – chiamiamolo informale se vogliamo parlare di Europa, o espressionismo astratto se vogliamo parlare di America – è stato a lungo considerato l’arte degli anni ’50, nella fattispecie in America l’arte per eccellenza di quel periodo. Però va detto che da una parte abbiamo un periodo storico che sente proprio come un’esigenza questa esplosione incontrollata di forme o di colori, questo andare verso la totale spaccatura dell’immagine realistica che a questo punto non è più centrale nell’esperienza della pittura ma anzi marginale e ormai quasi ininfluente. D’altro canto, invece, col passare degli anni ritengo che la pittura astratta, l’informale, l’informale segnico, l’informale gestuale, diventino un po’ delle scuole, delle grandi maniere. Che, spesso, più ci avviciniamo ai nostri tempi e più nascondono a mio avviso la quasi totale incapacità di realizzare un quadro. Quando le cose sono portate oltre il loro tempo massimo rischiano (questo in qualsiasi ambito evidentemente) di diventare maniera. Però se in Europa e in Italia in particolare queste forme ormai hanno lasciato il posto ad altre esperienze completamente diverse, lo stesso non si può dire dell’America dove tuttora ci sono generazioni di pittori che continuano a dipingere con questo tipo di stile e di linguaggio. Si vede che proprio è connaturato all’esperienza della cultura americana.