La Triennale di Milano presenta Sudari, mostra personale dell’artista Gianluigi Colin.
La mostra comprende un corpus di 16 grandi tele inedite e realizzate appositamente per il progetto espositivo, più un dittico di piccole dimensioni.
I Sudari di Colin sono una sequenza di opere astratte, cariche di sedimentazioni cromatiche, di striature ripetute, di campiture dilatate nello spazio. La particolarità di questa nuova serie risiede nell’origine di questi lavori, a mettere in luce la storia personale e la radice concettuale della recente ricerca dell’artista: Gianluigi Colin, infatti, si appropria di grandi tessuti utilizzati per pulire le rotative di stampa di diversi quotidiani. Si tratta di “roto-pitture”, tessuti in poliestere usati per “rimuovere” simbolicamente le notizie del mondo. Risultato: la morte delle notizie dà vita a una nuova bellezza duratura: la spremuta della storia su tela!"
Le opere in mostra svelano le diverse anime di Colin come artista, art director e giornalista. Nascono tra la materia della realtà tipografica, portatori della memoria di giorni, mesi, anni di notizie, intrisi di inchiostri tipografici ed energie collettive. Autentici “stracci di parole”: il grado zero di ogni forma di scrittura.
Gianluigi Colin - Sudario (13 settembre 2017), 2017
La Triennale di Milano presenta Sudari, mostra personale dell’artista Gianluigi Colin.
La mostra comprende un corpus di 16 grandi tele inedite e realizzate appositamente per il progetto espositivo, più un dittico di piccole dimensioni.
I Sudari di Colin sono una sequenza di opere astratte, cariche di sedimentazioni cromatiche, di striature ripetute, di campiture dilatate nello spazio. La particolarità di questa nuova serie risiede nell’origine di questi lavori, a mettere in luce la storia personale e la radice concettuale della recente ricerca dell’artista: Gianluigi Colin, infatti, si appropria di grandi tessuti utilizzati per pulire le rotative di stampa di diversi quotidiani. Si tratta di “roto-pitture”, tessuti in poliestere usati per “rimuovere” simbolicamente le notizie del mondo. Risultato: la morte delle notizie dà vita a una nuova bellezza duratura: la spremuta della storia su tela!"
Le opere in mostra svelano le diverse anime di Colin come artista, art director e giornalista. Nascono tra la materia della realtà tipografica, portatori della memoria di giorni, mesi, anni di notizie, intrisi di inchiostri tipografici ed energie collettive. Autentici “stracci di parole”: il grado zero di ogni forma di scrittura.
Gianluigi Colin - Sudario (22 maggio 2016), 2018
La Triennale di Milano presenta Sudari, mostra personale dell’artista Gianluigi Colin.
La mostra comprende un corpus di 16 grandi tele inedite e realizzate appositamente per il progetto espositivo, più un dittico di piccole dimensioni.
I Sudari di Colin sono una sequenza di opere astratte, cariche di sedimentazioni cromatiche, di striature ripetute, di campiture dilatate nello spazio. La particolarità di questa nuova serie risiede nell’origine di questi lavori, a mettere in luce la storia personale e la radice concettuale della recente ricerca dell’artista: Gianluigi Colin, infatti, si appropria di grandi tessuti utilizzati per pulire le rotative di stampa di diversi quotidiani. Si tratta di “roto-pitture”, tessuti in poliestere usati per “rimuovere” simbolicamente le notizie del mondo. Risultato: la morte delle notizie dà vita a una nuova bellezza duratura: la spremuta della storia su tela!"
Le opere in mostra svelano le diverse anime di Colin come artista, art director e giornalista. Nascono tra la materia della realtà tipografica, portatori della memoria di giorni, mesi, anni di notizie, intrisi di inchiostri tipografici ed energie collettive. Autentici “stracci di parole”: il grado zero di ogni forma di scrittura.
Gianluigi Colin - Sudario (12 dicembre 2012), 2017
Al “PArCo – Galleria d’arte moderna e contemporanea di Pordenone”, dal 14 settembre al 17 novembre 2013 è in esposizione “Caos Apparente”, il nuovo lavoro di Gianluigi Colin. Nato a Pordenone ma ormai milanese di adozione, Colin è artista nonché art director del Corriere della Sera. In “Caos Apparente”, come spiega l’artista stesso nell’intervista che segue, è chiave di lettura fondamentale della sua opera la convergenza tra l’arte e l’informazione. All’interno della mostra, uno specifico “Obbligatorio Fotografare” suggerisce ai visitatori di fissare con fotocamere e cellulari la propria individuale percezione delle opere per poi condividerla in rete, diventando essi stessi protagonisti di un progetto artistico.
Marina Abramovic sostiene che l’interazione col pubblico, rendendolo parte dell’opera, sia sempre più irrinunciabile. Quale ritiene sia l’importanza dell’obbligo di fotografare “Caos Apparente”, nel contesto del progetto stesso? Ciò detto, aggiungo solo che – dato che ogni volta che vado alle mostre devo cercare di nascondermi dai custodi per scattare qualche innocente foto senza flash – per me è stato comunque un gesto liberatorio…
Questa necessità irrefrenabile di fotografare alle mostre la provo sempre anche io. E sono felice quando mi ritrovo in alcuni posti, come l’Hermitage o la National Gallery, in cui è permesso farlo. Inoltre, trovo sia bellissimo il rapporto con il personale che lavora nei musei o nelle gallerie, come per esempio i custodi: è interessante il dialogo che si può venire a creare attraverso la relazione del tuo sguardo da un lato con l’opera d’arte, e dall’altro con le persone che invece si ritrovano quotidianamente a “subire” le opere, vivendole non per il piacere di contemplarle ma come momento di lavoro. Questa è un’altra riflessione che mette simbolicamente in luce il rapporto di fruizione con l’opera d’arte. Chiaramente, nella Body Art, nelle performance di Marina Abramovic come di tutti gli altri, l’elemento essenziale sta proprio nel rapporto con il pubblico: ovvero, una performance ha senso non tanto e non solo per la riproduzione che poi verrà fatta della stessa, ma essenzialmente per la sua emozione, percezione e leggibilità. Sostanzialmente, è come andare a teatro: quindi l’interazione con il pubblico è fondamentale.
Per quanto riguarda me, molti dei miei lavori sono stati realizzati e svolti proprio in costante relazione con il pubblico. Questo vale nel caso di “Caos Apparente”, ma ancor di più in quello di un lavoro di qualche anno fa, “Vie di Memoria”, in cui chiedevo alle persone di darmi – appunto – una parte della loro memoria privata, che fosse una fotografia, una lettera o un documento. In quel caso ho tracciato e poi elaborato davanti al pubblico queste memorie. Ho portato questa performance a New York, San Pietroburgo, Buenos Aires oltre che a Milano, Roma, Napoli e Pordenone, e in ogni situazione da un lato certificavo la memoria singola di ogni persona, ed al contempo elaboravo ognuna di esse, mettendole in relazione tra loro e tracciando così una memoria collettiva. Per me, quindi, il dialogo con il pubblico rappresenta un coinvolgimento non soltanto emotivo ma soprattutto concettuale: stimolo un gesto attivo da parte di chi entra in una mostra a guardare e a osservare. Nel caso di “Caos Apparente” questo accade attraverso il fatto di scattare una fotografia, perché tale atto porta a far sì che si passi oltre alla semplice percezione. Peraltro, attraverso lo sguardo rivolto a 30.000 fotografie, il visitatore crea un proprio percorso personale, diventando egli stesso artista e in qualche modo protagonista di questa installazione.
A proposito delle 30000 fotografie, guardando questo vortice di immagini – che poi appartengono alla nostra conoscenza quotidiana, alla cronaca recente che ben conosciamo, e che in questo contesto vengono poste in questo modo a costituire un’opera – mi sono domandata se la loro collocazione fosse casuale, e quanto lo fosse.
Guarda… la nostra vita è frutto di incroci di situazioni casuali, ma di fatto alla fine nulla è davvero casuale perché la costruzione della nostra esistenza passa attraverso le nostre scelte. E anche questa grande installazione, con queste trentamila fotografie, rappresenta una metafora del nostro vivere – per non dire subire – il caos della comunicazione e delle immagini. Al tempo stesso, però, è anche un caos dentro il quale – e anche qui sta la definizione di “apparente” – ognuno ritrova il proprio percorso personale. Ho collocato le immagini in modo casuale in alcuni casi, mentre in altri ho voluto accostarne alcune ad altre specifiche proprio allo scopo di sollecitare un metalinguaggio che portasse ad un pensiero. Che è poi esattamente il pensiero che hai fatto tu.
Quali sono gli accostamenti “voluti”?
In certi casi ho voluto accostare alcuni protagonisti legati da un particolare aspetto: ad esempio, ho messo insieme Obama, il Papa, la Merkel, concentrando delle aree in cui la rappresentazione del mito del potere fosse più precisa. In altri ho indugiato invece sul tema della leggerezza, oppure su ciò che in qualche modo noi subiamo, come questo tsunami di immagini sul calcio. Che poi io dico “subiamo” perché ritengo che il calcio in molti casi sia diventato davvero una sorta di grande droga che richiama i panem et circenses, perchè non c’è più neanche il piacere del gesto atletico ma c’è invece tutta una costruzione di speculazioni economiche e di abbassamento delle coscienze.
Come dice Gillo Dorfles, l’arte non può non fare i conti con i mutamenti della società, e questo suscita nell’artista una tendenza di rivolta quando non addirittura di sovversione. Questo specialmente dopo il secondo dopoguerra, ovvero da quando l’informazione è diventata molto presente, potente e prepotente – penso a un Cartier-Bresson, archetipo del fotogiornalista ma soprattutto artista. Dato che i mezzi di comunicazione ci fanno pervenire delle informazioni che probabilmente sono state mediate, è realmente possibile fare al contempo arte e vera informazione, ovvero utilizzare queste informazioni mediate in un contesto artistico che dovrebbe essere immediato?
C’è una definizione bellissima di Pablo Picasso: “L’arte è una menzogna che dice la verità”. In questo senso, quello che personalmente io tento di fare è raccontare attraverso la metafora una grande verità. Questo mare di immagini estrapolate dal giornale è un racconto metaforico di una verità; ovvero, in sé non è verità, ma paradossalmente al contempo lo è, poiché si tratta del racconto della nostra contemporaneità, in cui noi non siamo più capaci di vedere, perché persi dentro l’assuefazione del guardare, perché il nostro sguardo è saturato. Ovviamente io non do soluzioni, ma l’intento è quello di invitare a vedere piuttosto che a guardare: perché la differenza è che il semplice atto del guardare porta ad una visione superficiale, mentre vedere significa coinvolgere anche la coscienza della percezione.
Sono rimasta personalmente piuttosto colpita dal suo lavoro, in “Presente Storico”, in cui mette a confronto immagini di reportage storiche con quadri memorabili del passato, dimostrando come ci sia una sorta di ricorso storico di certe situazioni e delle relative immagini. Ma secondo lei questo capita solamente per immagini e situazioni tragiche?
“Presente Storico” è stato il primo lavoro che ho presentato nel 1998 all’Arengario: in realtà non documenta solo fatti tragici, c’è infatti ad esempio il bacio di Hayez accostato alla famosa foto di Eisenstaedt che immortalò il bacio tra un marinaio al ritorno dalla guerra e un’infermiera… un gesto d’amore, quindi, seppur legato ad una precedente tragedia. Un’emozione assolutamente positiva. La nostra vita è fatta anche di momenti frivoli, o di tenerezze; ma i microcosmi delle nostre vite quotidiane rientrano in maniera armonica nel macrocosmo della grande Storia, e ne costituiscono una parte fondamentale. E questo essere dentro la Storia ci può permettere di capirla. Tutto il mio lavoro pone la sua attenzione sul valore della memoria, sul senso del tempo, oltre che sul valore dello sguardo. La memoria infatti non come “operazione nostalgia”, ma come luogo ove rivolgere lo sguardo per capire dove poter andare. Non devo essere ovviamente io a dirlo, ma il mio è un tentativo di svolgere un impegno civile: credo molto nel senso di responsabilità dell’artista e credo che ci debba assolutamente essere un’estetica, ma che quello che sia davvero essenziale sia il contenuto. Una volta, ad una mostra, chiesi a Giorgio Marconi se gli piacessero le opere di un artista. Marconi mi rispose indirettamente ed ironicamente, dicendomi “Quando io guardo un’opera voglio vedere un perché”. Trovo che abbia ragione. Ed il mio intento è esattamente questo: cerco un perché, e soprattutto cerco di stimolare la gente nella ricerca di un perché.