Tommaso Ottieri, iperrealismo alla cera d'api
Come un pittore seicentesco, Tommaso Ottieri pone al centro della sua opera la messa in scena. Nel senso letterale dell'espressione, ovvero la giustapposizione entro una scena – che è il reale soggetto – di una serie di figure, che fungono da attori, o da comparse, per rendere la scena stessa compiuta.
La particolare caratteristica di questi figuranti, però, è che non si tratta di esseri umani: la figura umana, centrale nei quadri di Ottieri, si fa notare soprattutto per la sua assenza.
Quello che in sua vece è presente sono le sue vestigia. Gli edifici, le stratificazioni storiche dei paesaggi operate da umanità variegate nel corso del tempo ma coerentemente (ed al contempo incoerentemente) presenti in uno stesso contesto. Racconta, Ottieri, di quando al suo debutto il pubblico restò molto colpito dai paesaggi napoletani da lui ritratti, che apparivano così fantasiosi, visionari, e decisamente immaginari; si trattava invece di raffigurazioni quasi esatte della collina del Vomero.
Le fantasie non erano quelle del pittore, ma quelle del tessuto storico stesso di una città come Napoli, in cui - di dominazione in dominazione nei tempi passati, e di palazzinaro in palazzinaro in quelli recentissimi – si è venuto man mano a creare uno scenario urbanistico al contempo ricco e contorto. Che, se osservato da un diverso punto di vista, e dalla distanza che intercorre tra un quadro ed il suo osservatore, appare surreale; ma si tratta, diremmo piuttosto, di una visione iperreale; anzi, addirittura oltre l'iperreale.
E lo stesso discorso vale per i paesaggi veramente immaginati in cui Ottieri, spostando da una città all'altra interi edifici e riaccostandoli, e collocandone accanto di completamente nuovi, raffigura degli scenari inesistenti in cui però – ancora – gli esseri umani, seppur non ritratti, sono presenti: in questi suoi impianti urbani stravolti restano l'effetto della luce e del buio, del calore e del gelo, della solitudine o dell'assembramento, che sono i medesimi che rimangono nella rappresentazione di un corpo umano.
Più di recente, Ottieri ha lavorato sugli interni di chiese, di edifici barocchi e di teatri restando comunque fedele al suo stile. In cui si ravvisa, nelle pennellate, la dichiarata influenza di uno Yan Pei-Ming, ma che è caratterizzato da un aspetto che rende Tommaso Ottieri una figura probabilmente unica a livello internazionale. Ovvero, la maestria con cui utilizza l'antica arte dell'encausto. Si tratta di una tecnica estremamente complessa, in cui i pigmenti vengono lavorati con una ricetta a base di cera d'api. Che necessita però di notevoli sacrifici per essere applicata: il colore deve costantemente essere scaldato e deve essere steso in posizione orizzontale, e quindi il pittore – tra pennelli in una mano e asciugacapelli nell'altra, fornelletti e bagnomaria, impalcature e posizioni che definire scomode è dir poco – fatica parecchio per realizzare la propria opera.
Il vantaggio, però, è notevole. I quadri dipinti ad encausto hanno una durata virtualmente illimitata: i pigmenti infatti, protetti da questa particolare formula, non risentono dell'effetto del tempo e degli agenti atmosferici. E risultano, anche dopo migliaia di anni, uguali a come erano stati posati dal pittore.
Ottieri merita sicuramente un posto tra i grandi della pittura italiana contemporanea. E qualora la sua arte dovesse giungere ad eternarlo, l'utilizzo dell'encausto garantirà – anche da un punto di vista puramente materico – l'eternità alla sua opera.