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Bellissima Italia, ispirazione d’arte per il mondo: il Getty Center di Los Angeles
12 Set

Bellissima Italia, ispirazione d’arte per il mondo: il Getty Center di Los Angeles

Los Angeles: non solo Hollywood, non solo Mulholland Drive, Venice Beach o la Walk of Fame: noi siamo andati oltreoceano e oltre per visitare un museo che non solo è uno dei più importanti al mondo, ma soprattutto spicca per l’onore reso all’arte italiana: il Getty Center di Los Angeles. Inaugurato nel 1997, il Getty Center è una sorta di moderna acropoli composta da 11 edifici circondati da meravigliosi spazi verdi.
Il suo creatore, l’architetto Richard Meier, parla del Center come dell’idea romantica di ricreare delle città italiane sulla collina; inoltre per l’articolazione degli edifici si rifà ad antiche ville romane come la Villa Adriana di Tivoli.
Ma è soprattutto tra le opere esposte che la nostra arte viene grandemente celebrata al Getty. Oltre all’arte antica esposta nella Villa, la permanente del Center espone opere di grandissimo pregio dal medioevo al diciannovesimo secolo.
Come dice Timothy Potts, direttore del Getty Museum, il nostro paese rappresenta un tesoro sorprendentemente rigoglioso di meraviglie sceniche, tra opere d’arte, edifici storici e panorami emozionanti. E l’attenzione riposta dal Getty Museum nei confronti dell’Italia dell’arte è testimoniata anche dalla presenza di Davide Gasparotto, dal 2015 Senior Curator dei dipinti del museo.

Gli uomini e la natura in movimento, verso le idee
28 Giu

Gli uomini e la natura in movimento, verso le idee

L'Idea: un concetto fondamentale per il pensiero umano, di qualsiasi forma. Dall'artigiano all'ingegnere, dal cuoco al calciatore, ognuno basa sull'Idea la propria attività. La capacità di formulare idee è la caratteristica fondamentale dell'essere intelligente, e se negli animali l'ideazione è funzionale e mai astratta, oltre che rara, nell'essere umano assume un'altra forma e si rende capace di andare oltre.

Oltre ciò che è mondano, addirittura "oltre il cielo" nella visione platonica, in cui era - appunto - l'Iperuranio la sede delle idee.

È intorno al concetto di Idea che si svolge la collettiva "Natura Plastica", visitabile dal 28 giugno al 24 luglio presso Blindarte in Via Palermo a Milano.
"Natura Plastica", ovvero natura in movimento - o anche natura manipolata: dall'uomo, si intende. Che per farlo attinge all'Iperuranio, a idee che già esistono, e le rende visibili; d'altronde l'etimo stesso di "idea"/ἰδέα, dal tema di ἰδεῖν, significa appunto "vedere". E l'Artista è colui che più ancora di artigiani, ingegneri, cuochi o calciatori pone l'idea completamente astratta al centro della propria azione, per renderla reale e manifesta come propria Visione.

L'esposizione si riferisce, nello specifico, al pensiero seicentesco neoplatonico: il curatore Memmo Grilli ha posto la propria attenzione in particolare alle teorie di Ralph Cudworth, che pur rimanendo legate a una spiritualità dogmatica (Cudworth era pastore di una piccola parrocchia) lascia intravedere spiragli di libertà e autodeterminazione; per i tempi e i contesti, cosa non da poco, tanto è vero che avrà una forte influenza non solo sul concetto di idea o di libertà, ma anche su quello di natura - che si fa "essere vivente non consapevole" - e di conseguenza su tutto il pensiero europeo.
E questo pensiero, traslato in contesto artistico, è al centro della mostra, dove saranno presenti opere create in epoche del tutto differenti, ma coese nel rappresentare questi temi. Sono presenti, tra le altre, opere di Micco Spadaro, Raffaele Belliazzi, Giuseppe Casciaro, Joseph Beuys, Davide Cantoni, Man Ray, Anselm Kiefer, Matteo Procaccioli, Enrico Baj, Massimo Bartolini, Emilio Cavallini, Christo, Jeff Koons, Mimmo Rotella, Mario Schifano, Andy Warhol e Francesca Woodman.

@ilGiornaleOff

Giovanna Fra. L’universo pittorico abbraccia la musica
05 Giu

Giovanna Fra. L’universo pittorico abbraccia la musica

Alla 57ma Biennale di Venezia quest’anno, al padiglione della Repubblica di San Marino, c’è  Giovanna Fra, artista pavese di formazione milanese, invitata dal curatore Vincenzo Sanfo a dialogare con un gruppo di artisti cinesi sulla pittura a inchiostro, le sue origini e i suoi sviluppi.
Si tratta di una delle varie manifestazioni in cui Fra è coinvolta in questi stessi giorni; eventi che vanno dalla collaborazione con Giovanni Allevi – l’artista è fortemente legata all’interazione tra musica e arte – che avverrà nella prima metà di luglio, a LODOLAFRA, una “doppia personale” in collaborazione con l’icona moderna dell’arte Pop italiana Marco Lodola.
Abbiamo incontrato Giovanna per rivolgerle alcune domande in merito a questi appuntamenti, al rapporto tra l’arte e la musica, e alla sua opera.

Volevo innanzitutto parlare di LODOLAFRA. I vostri linguaggi sono senz’altro diversi, ma trovano un potente punto di incontro in quelli che sono probabilmente i minimi comun denominatori delle arti visive, ovvero la luce innanzitutto, ma anche il colore e se non i materiali, quanto meno la matericità. Quali ritieni possano essere i punti in comune tra le vostre visioni?
La nostra visione dell’arte è decisamente all’opposto, a partire proprio dall’uso di materiali completamente differenti; l’unione, come dici, sta proprio nel colore e nella forza del colore stesso. Nei lavori fatti assieme, io intervengo coi miei gesti pittorici sul plexiglass: i gesti vengono quindi quasi contenuti, diventano quasi un’astrazione all’interno di qualcosa di figurato che sono le immagini ritagliate in plexiglass di Marco, soprattutto le sue riconoscibilissime ballerine su cui ci siamo particolarmenteimage (7) concentrati, anche se poi sicuramente questo nostro incontro si evolverà. Quindi direi che da visioni del tutto differenti ci cerchiamo e ci troviamo tramite il colore e la matericità del gesto pittorico che gioca all’interno della figura ritagliata.

Tra l’altro anche Lodola, come te, è molto legato al dialogo con il mondo musicale…
Anche in quello l’approccio e la modalità è comunque differente, perchè le sue sono vere e proprie collaborazioni  con artisti di grande livello dei contesti del rock o del pop italiano. La mia visione è invece sempre stata evocata dal gesto a livello più che altro poetico e legata alla classicità della musica. Per cui anche da questo punto di vista il nostro incontro stride e nello stesso tempo si strizza l’occhio. Per me è davvero molto esaltante incontrarmi con un artista come lui che si è sempre confrontato con grandi nomi, è un passaggio importante.

 

Ma anche tu fin dall’inizio ti sei confrontata con grandi nomi. Il rapporto tra la tua arte e la musica è sempre stato molto importante, a partire dalla tesi di Laurea dedicata a John Cage.
ll tutto parte dagli studi d’arte che ho intrapreso a Brera: mi sono diplomata in storia della musica, oltre che in pittura, e ho fatto una tesi con un musicologo che mi ha aiutata a tradurre il mio segno pittorico astratto in suono. In musica il suono non sempre è armonico: può anche farsi disarmonia, essere astratto o grintoso e non sempre piacevole. E improvvisato, come nella musica jazz. Il mio modo di dipingere è sempre stato accostato alla musica jazz per via del mio costante ricorso alla improvvisazione e alla casualità. di una casualità però data da un animo che si riproduce nel fare pittura, nel fare arte. Non so se sono riuscita a spiegarmi perchè è molto difficile raccontare la propria poetica.

Pensando a Cage, leggevo della collaborazione con Jasper Johns a certe coreografie di Cunningham: il coreografo nell’occasione sembrava sostenere – e Cage con lui – che la reale interazione tra arte e musica è totalmente affidata ai sensi del pubblico, e che di fatto esse sono piuttosto slegate tra loro. Qual è il tuo punto di vista?
È esattamente così: la fusione avviene a livello sensoriale. Il segno stesso, peraltro, è come una successione di note musicale slegate l’una dall’altra. E, restando nell’ambito strettamente musicale, Cage diceva addirittura che il rumore che c’è attorno ad una composizione di note musicali diventa anch’esso parte dell’opera. Tanto è vero che lui inserisce nel suo pianoforte degli attrezzi da lavoro proprio per creare rumore e disarmonia nel suo modo di suonare lo strumento, e fa anche interagire il pubblico mentre lui si esibisce sul palcoscenico. Anche questo è molto jazz come atteggiamento, addirittura va oltre il jazz. Cage è geniale. È un atteggiamento dove in arte rientra tutto, non solo il bello estetico e l’armonia delle cose, ma anche il disturbo, rumore, la sgradevolezza. Quindi l’arte non rappresenta solo ciò che è bello, ma deve rappresentare un po’ tutto. Un concetto che arriva dall’Oriente, dove tra l’altro gli orientali 1 (12)considerano nella loro musica non l’armonia continua ma il singolo suono, la nota musicale staccata l’una dall’altra; di conseguenza, per loro le pause sono molto importanti, nella musica come anche nell’arte. E le pause per me rappresentano la parte bianca del dipinto, la parte della tela dove io non pongo il mio tratto, dove l’occhio può respirare e saltare dinamicamente su un altro colore, su un’altra macchia o su un altro segno. Le pause che diventano parte dell’opera.

La multimedialità delle tue ipergrafie è ricerca di sinestesia?
Certo, contaminazione dei sensi, ma anche immagine della pittura stessa. Attraverso la fotografia, che ingrandisce particolari di alcuni miei dipinti o comunque dettagli su cui indago, attraverso quell’immagine che è una macro ingigantita, io creo già delle basi su cui lavorare successivamente e pittoricamente. Quindi è un dialogo tra la fotografia – ovvero il mezzo tecnologico – e la pittura, ma allo stesso tempo è un’indagine un po’ concettuale sulla pittura stessa: un particolare di un quadro più grande e figurativo, preso nella sua piccola porzione, è un quadro astratto, un piccolo quadro astratto. Ecco perciò che nell’astrazione c’è il figurativo e nel figurativo c’è l’astrazione. Questo mio approccio deriva senza dubbio anche dal mondo del restauro: prima di dedicarmi alla sola pittura sono stata per 25 anni restauratrice di tele e affreschi, e questo tipo di indagine sulla materia e sul particolare deriva sicuramente anche da quei miei studi e da quel mestiere.

Il 10 luglio a Pistoia le tue videoproiezioni accompagneranno i concerti di Giovanni Allevi. Puoi raccontarci qualcosa di più?
Si tratterà sempre delle mie ipergrafie che anziché essere su tela, fissate a una parete, verranno tradotte sulle facciate di un importante palazzo di Pistoia e proiettate durante il concerto. La cosa meravigliosa è che il mio lavoro, che ha a che fare con le note musicali e con la musicalità del colore, del segno e della pittura, accompagnerà le note musicali del grande Giovanni Allevi. Questa cosa mi entusiasma davvero. C’è già stata una scelta delle immagini delle mie opere che il tecnico dell’immagine e del suono Claudio Cantoni trasformerà nella proiezione che, in modo lento e progressivo, accompagnerà Allevi. Onestamente non vedo l’ora di vederne la realizzazione dal vivo.

Qual è la differenza di approccio tra la contaminazione dell’arte con la musica colta – che forse può apparire più naturale – e quella con la musica popolare, seppur d’autore?
Non vedo molta differenza; forse sta solo nel fatto che con la musica colta è in un certo senso “ammessa” una sperimentazione meno limitata, dove l’artista può lanciarsi ad indagare mondi nuovi. Lo dico pensando in particolare proprio a John Cage. Nella musica pop l’approccio è più immediato, comunicativo, giovane e fresco se vogliamo. Come può essere l’approccio che ha Marco con gli artisti con cui si confronta, che fanno pop e che sono anch’essi, comunque, grandi musicisti.

Se dovessi pensare a un musicista con cui vorresti confrontarti?
Purtroppo non c’è più ed è David Bowie, quindi non potrò mai più farlo. Però posso dire che abbiamo fatto una collettiva, tempo fa, in cui ogni artista ha lavorato sull’immagine del Duca Bianco: abbiamo esposto sia in luoghi pubblici che privati e di fatto la mostra è tuttora in corso e prossimamente potremo rivederla a Sanremo, all’interno del teatro Ariston.

Mi racconti della tua partecipazione alla Biennale?
Sono stata invitata ad esporre nel padiglione della Repubblica di SAN Marino e a confrontarmi con artisti cinesi: proprio perché il mio segno richiama la cultura orientale mi hanno messo in dialogo con questi artisti, che a loro volta si confrontano invece con la pittura occidentale. Un dialogo molto forte e molto bello, un’interazione di volontà vicendevole di scoprirsi e scoprire le diversità delle due culture. Inoltre il loro essere figurativo è sempre molto lieve, leggero e ben si armonizza con il tipo di pittura che faccio io.

Nel tuo lavoro qual’è stata la cosa che maggiormente ti ha ispirata?
Come accennavo prima, sicuramente il mio lavoro di restauro, questo continuo contatto con la materia, con la pittura; Il cercare di capire, di penetrare un quadro proprio perché lo devi restaurare in profondità e quindi devi capirne ogni cosa, indagarne la materia. Il rapporto con le opere da restaurare – quindi di epoche più remote – mi ha inoltre sempre portata a evocarle pittoricamente, anche con l’uso di colori che se vogliamo richiamano il passato, ma che si fanno contemporanei. Il mio lavoro prende molto da ciò che già è stato.

Intervista a Paolo Baratta
11 Mag

Intervista a Paolo Baratta

La 57ma Esposizione Internazionale d'Arte della Biennale di Venezia apre sabato 13 maggio, ancora una volta - come già nella precedente edizione - anticipando di un mese rispetto alle aperture precedenti.

Ed è nel segno della continuità che questa ennesima Biennale presieduta da Paolo Baratta si pone: ancora una volta il focus viene posto sull'osservazione del fenomeno della creazione artistica nel contesto contemporaneo e del rapporto tra l'artista e il pubblico, come già abbiamo potuto osservare nelle ultime tre edizioni.

Se Bice Curiger nel 2011 rivolse la sua attenzione all'illuminazione, alla percezione e al rapporto tra artista e spettatori, Massimiliano Gioni nel 2013 alle forze creative interiori che spingono l'uomo a divenire artefice per sé e per gli altri e Okwui Enwezor nell'ultima esposizione a come l'attuale "age of anxiety" sia decisiva nello stabilire l'imprescindibile legame tra l'arte e la realtà sociopolitica umana, Christine Macel chiude quest'anno il cerchio ponendo al centro della manifestazione l'Uomo Artista; indagandone profondamente i meccanismi, ciò che conduce, giorno dopo giorno, dal concetto all'opera ed infine al rapporto con il pubblico.

Il Presidente nel 2015, in occasione dell'ultima Biennale, parlava giustamente di una sorta di "trilogia" relativa alle tre esposizioni più recenti. Il discorso però non pare essere concluso, e l'approccio in forma di ricerca - caratteristica ormai peculiare delle esposizioni da lui presiedute - torna a manifestarsi in maniera decisa.

Baratta, oltre a ribadire - assieme a Macel - il concetto che l'arte sia un atto non di accomodamento o di consumo, ma di libertà e resistenza, vuole che il pubblico possa rendere l'arte stessa sempre più propria e considerare la Biennale come una dilatazione di sé, sottolineando nuovamente la funzione pedagogica dell'esposizione: non già come imposizione di un'idea, ma come accompagnamento alla conoscenza, che deve essere soprattutto emotiva piuttosto che letteraria. Lo scopo è quello di "fare scoprire che ci sono altri mondi che si possono desiderare": e per farlo, oltre al "viaggio" pianificato da Macel tramite i nove transpadiglioni tematici che indagano le ispirazioni e i temi degli artisti e li suddividono in "famiglie", questa esposizione si caratterizza per le molteplici iniziative volte all'incontro con l'artista in un contesto di fertile tempo libero. L'utilizzo del tempo libero - massima conquista della modernità assieme al benessere fisico - è una questione importante, e la soluzione proposta dall'artista è quello di usarlo per trasferirsi verso un mondo più vasto, più ampio e dilatato: un invito a essere dei coerenti cittadini del mondo, non solamente dei consumatori affrettati.

E pranzando e discutendo con gli artisti, o ancora osservando la loro quotidianità, ponendo l'attenzione sul loro otium inteso - come da etimo - in chiave costruttiva, piuttosto che sul negotium, cui attiene la parte più "professionale" dell'artista (per tacere della componente del "bellum", che Christine Macel ha giustamente escluso rispetto alla frase ciceroniana), il pubblico della Biennale può trarre preziose e illuminanti indicazioni, oltre che percepire l’importanza della figura dell’Artefice nel contesto sociopolitico odierno.

Abbiamo posto a Paolo Baratta tre domande.

 

Una nuova Biennale dalla forte connotazione sociopolitica. Rispetto alla precedente però non ci pare vi siano state “critiche” relative alla politicizzazione dell’esposizione...

Politicizzata" non è sinonimo di "politica": qualcosa è politicizzato quando ha una tinta particolare per quanto riguarda le ricette sul nostro futuro.

 

Ma è possibile fare arte contemporanea che non sia politica?

È possibile fare una Biennale che sia politica: la Biennale può essere altamente politica se parla di noi, cercando di aiutarci a conoscere meglio quello che siamo. E se nel mondo l'atteggiamento generale è quello di restringere i propri orizzonti a poche verità, a poche identità, a pochi frammenti una Biennale che insiste sul dilatare, insiste sul fatto che l'uomo sia tante cose insieme e attraverso molteplici e diversi padiglioni mostra al visitatore diversi specchi di sé stesso è una Biennale che sta facendo politica.

 

Quale è stata la reazione degli artisti all'idea del confronto e dell'incontro diretto col pubblico? Senza fare nomi, c'è stato qualcuno "da convincere"?

Non ne ho notizia. Piuttosto possono esserci degli impegni che non consentano alcune date.
Gli artisti in realtà sono abituati, ognuno di loro ha già il suo kit: le sue immagini, il suo video... Non vengono dalle caverne, hanno già la consuetudine di presentarsi e di presentare il proprio lavoro. Certamente farlo in questo modo, per dare l’occasione al visitatore di rapportarsi con loro, è meno comune: poter avere una certa dimestichezza con l'artista e la possibilità di fargli delle domande dirette intorno a un tavolo - che è, appunto, il momento dell'otium, il momento nel quale ciascuno cede un po' di sé stesso e si considera più libero, più autonomo - è una modalità particolare che avvicina, favorisce il dialogo e aiuta a capire e a capirsi. Chiaramente è stato fatto in funzione del pubblico più che non degli artisti, ma è stata da essi assolutamente condiviso. La decisione, l’idea è stata ovviamente della curatrice nel contesto del suo percorso: la tavola col cibo, diciamo, è stata apparecchiata da lei; ma poi chiaramente tutto ciò che capita è il risultato di un pieno accordo.

Viva Arte Viva - la 57ma Biennale di Venezia
10 Mag

Viva Arte Viva - la 57ma Biennale di Venezia

La 57ma Esposizione internazionale d'arte si intitola "Viva Arte Viva".

Un’edizione della Biennale di Venezia che si caratterizza per il suo focus insolito: l’Artista stesso.
È proprio questo il senso dato dalla curatrice, Christine Macel al titolo di quest’anno: un’indagine, un racconto della componente più viva dell’arte. Ovvero, l’Artefice.

Come dice lo stesso presidente Paolo Baratta, la Biennale - che, a prescindere dal tema di volta in volta scelto, pone una particolare attenzione al dialogo tra gli artisti e il pubblico - porta quest’anno al centro il dialogo stesso. E lo fa celebrando chi l’arte la crea, permettendo a noi tutti di accrescere e dilatare la nostra prospettiva.

Una sorta di neo-umanesimo insomma: che celebra non tanto l’uomo in quanto tale, ma la capacità dell’uomo - tramite l’arte - di non essere dominato dalle forze avverse della realtà.
E in cui l’atto artistico diventa atto di resistenza, di liberazione, di generosità; un gesto pubblico, che l’artista compie per tutti.
Nove sono i capitoli, ideali padiglioni trasversali e transnazionali, che - snodandosi lungo un percorso che vuole rappresentare un viaggio dall’interiorità all’infinito - riuniscono in sé altrettante “famiglie di artisti”, affiancandosi ai padiglioni tradizionali di 87 paesi.

Dall’indagine sul rapporto tra otium - inteso come momento in cui ci si lascia andare all’ispirazione - e negotium, ovvero l’aspetto professionale dell’attività raccontato nel primo padiglione, quello degli artisti e dei libri fino all’ultimo, quello del Tempo e dell’Infinito, che si focalizza sul rapporto con il flusso temporale e l’inevitabile morte, ogni approccio degli artisti con la vita, e con la sua rappresentazione, viene approfondito.

La celebrazione avviene anche tramite una serie di eventi paralleli che mettono in atto il dialogo tra l’artefice e lo spettatore: dalla Tavola Aperta, un pranzo bisettimanale con gli artisti trasmesso anche in streaming web, ai video di Pratiche d’Artista, che illustrano il suo modus operandi, fino al progetto La mia Biblioteca, che diventa reale ed ospita, nei giardini Stirling, le letture preferite dagli artisti.

Notevole è anche il fatto che dei 120 artisti invitati, ben 103 siano qui alla Biennale per la prima volta: segno evidente della fiducia riposta nei confronti dell’arte; o, per meglio dire, degli artisti.
La Biennale a Venezia sarà aperta al pubblico fino a domenica 26 novembre 2017.

Keith Haring a Palazzo Reale
22 Feb

Keith Haring a Palazzo Reale

A Milano, a Palazzo Reale, dal 21 febbraio al 18 giugno 2017 c'è “Keith Haring - About Art”.

La regola che vuole che ogni artista abbia dei debiti nei confronti della grande arte del passato è a volte, quando si tratta di artisti moderni, difficile da verificarsi con immediatezza.
Quando poi l'artista in questione ha un tratto talmente inconfondibile e unico da essere immediatamente identificabile, e si immedesima più che mai con la modernità - e non solo a livello stilistico - il compito è a volte ancora più arduo.

Haring, artista emblematico dell'ultima grande rivoluzione controculturale e urbana - quella degli anni ottanta, dell'Hip-hop e della street art - attinge invece a piene mani - secondo la visione del curatore Gianni Mercurio - alla grande storia dell'arte del vecchio continente. E la mostra pone il focus proprio su questo aspetto.

Come i grandi padri del rap classico si rifacevano fortemente - pur nella loro quasi clamorosa originalità - a tradizioni come quelle black, dal blues al soul, o quelle europee della nuova musica elettronica, Haring fu grande osservatore della tradizione artistica. E non solo; la fame di cultura dell'artista, onnivora, spaziava dalla letteratura al cinema, dalla saggistica alla semiologia.

La mostra, promossa e prodotta dal Comune di Milano-Cultura, Palazzo Reale, 24 ORE Cultura , con il prezioso contributo della Keith Haring Foundation , presenta 110 opere, molte di dimensioni monumentali e inedite. E, a dimostrazione del rapporto tra Haring e la storia dell'arte, il percorso espositivo pone i lavori dell'artista americano in dialogo con le sue fonti di ispirazione: dall'arte classica a quella precolombiana, dalle figure archetipiche alle creazioni degli indigeni del Pacifico e a quelli americani, da Bosch a Masaccio passando per il Rinascimento e fino ai maestri del Novecento come Pollock, Chagall o Klee.

Haring, in netta controtendenza rispetto agli artisti pop - nel senso di popolari, da Dalì in poi, passando per Warhol per arrivare all'evanescente Banksy, che fa della sua assenza una grande presenza - tutto fu fuorché un personaggio mediatico.

La sua arte, fatta di schemi ripetitivi, è più un segno grafico che pittura. Eppure la sua forza, l'impatto estetico dei suoi lavori, è dirompente. E questo è dovuto alla potenza del suo messaggio sociale e politico, che seppe farsi segno dei tempi.

Fino alla sua morte fulminea e prematura, nel 1990, lavorò senza sosta per comunicare le sue opinioni, attraverso le sue visioni. Fu tra l’altro proprio in Italia, sulla parete esterna della canonica di Sant'Antonio abate a Pisa, che l’artista eseguì uno dei suoi più importanti lavori: “Tuttomondo”, ovvero il più grande murale europeo. La sua ultima opera pubblica, l’unica pensata per rimanere permanente.
Eppure questa esposizione dimostra che, nonostante i limiti oggettivi che la street art pone alla volontà di eternare, quando il messaggio è forte e il segno è irripetibile, l’arte resta per sempre.

La prima volta di Raffaello al cinema
24 Mar

La prima volta di Raffaello al cinema

Sky e Nexo Digital, in collaborazione con i Musei Vaticani, e con Magnitudo Film, presentano il quarto film d’arte per il cinema: Raffaello – il Principe delle Arti – in 3D, la prima trasposizione cinematografica mai realizzata su Raffaello Sanzio (1483-1520) che sarà nelle sale italiane il 3, 4 e 5 aprile e poi distribuito nei cinema di 60 paesi del mondo. Il film è stato riconosciuto di interesse culturale dal MiBACT – Direzione Generale Cinema. Si tratta di una grande produzione che segue il percorso già tracciato dai tre progetti precedenti, dedicati ai Musei Vaticani, a Firenze e gli Uffizi e a San Pietro e le Basiliche Papali di Roma.
Approfondimenti sulla grande arte rinascimentale tra Roma e Firenze, a metà tra il bio e il docupic, a cui le evolute tecniche di ripresa in 3D ed UHD donano un coinvolgimento notevole e totalizzante.

Dalle digressioni biografiche e tecniche affidate a celebri storici dell’arte – alle ricostruzioni storiche, ispirate ai dipinti ottocenteschi che ritraevano episodi della vita di Raffaello, qui interpretato dall’attore e regista Flavio Parenti, il film racconta la vita del grande Maestro urbinate.

Ed è proprio da Urbino, dalla casa natale di Raffaello, che inizia il racconto. Ovvero dalla scoperta del talento precocissimo dell’artista da parte del padre, il pittore Giovanni Santi, scomparso – come la moglie – quando Raffaello era ancora bambino.

Urbino, all’epoca centro artistico di primaria importanza a livello europeo, fu fondamentale per la formazione del pittore, che aveva accesso, grazie al padre, a Palazzo Ducale e alle grandi opere lì presenti. E altrettanto importante fu poi entrare nella bottega del Perugino.

E fu ispirandosi a un’analoga opera dello stesso Perugino, lo Sposalizio della Vergine, che Raffaello superò il maestro e tracciò un solco incolmabile con la pittura precedente, stabilendo nuovi, elevatissimi standard che lo porteranno nel seguente periodo fiorentino a misurarsi con gli altri due grandi innovatori dell’epoca, Leonardo e Michelangelo. E poi, con il Buonarroti, sotto Papa Giulio II e poi Leone X, a creare a Roma e in Vaticano le immense opere che renderanno quell’arte eterna.

Tommaso Ottieri, iperrealismo alla cera d'api
22 Gen

Tommaso Ottieri, iperrealismo alla cera d'api

Come un pittore seicentesco, Tommaso Ottieri pone al centro della sua opera la messa in scena. Nel senso letterale dell'espressione, ovvero la giustapposizione entro una scena – che è il reale soggetto – di una serie di figure, che fungono da attori, o da comparse, per rendere la scena stessa compiuta.

La particolare caratteristica di questi figuranti, però, è che non si tratta di esseri umani: la figura umana, centrale nei quadri di Ottieri, si fa notare soprattutto per la sua assenza.
Quello che in sua vece è presente sono le sue vestigia. Gli edifici, le stratificazioni storiche dei paesaggi operate da umanità variegate nel corso del tempo ma coerentemente (ed al contempo incoerentemente) presenti in uno stesso contesto. Racconta, Ottieri, di quando al suo debutto il pubblico restò molto colpito dai paesaggi napoletani da lui ritratti, che apparivano così fantasiosi, visionari, e decisamente immaginari; si trattava invece di raffigurazioni quasi esatte della collina del Vomero.
Le fantasie non erano quelle del pittore, ma quelle del tessuto storico stesso di una città come Napoli, in cui - di dominazione in dominazione nei tempi passati, e di palazzinaro in palazzinaro in quelli recentissimi – si è venuto man mano a creare uno scenario urbanistico al contempo ricco e contorto. Che, se osservato da un diverso punto di vista, e dalla distanza che intercorre tra un quadro ed il suo osservatore, appare surreale; ma si tratta, diremmo piuttosto, di una visione iperreale; anzi, addirittura oltre l'iperreale.
E lo stesso discorso vale per i paesaggi veramente immaginati in cui Ottieri, spostando da una città all'altra interi edifici e riaccostandoli, e collocandone accanto di completamente nuovi, raffigura degli scenari inesistenti in cui però – ancora – gli esseri umani, seppur non ritratti, sono presenti: in questi suoi impianti urbani stravolti restano l'effetto della luce e del buio, del calore e del gelo, della solitudine o dell'assembramento, che sono i medesimi che rimangono nella rappresentazione di un corpo umano.

Più di recente, Ottieri ha lavorato sugli interni di chiese, di edifici barocchi e di teatri restando comunque fedele al suo stile. In cui si ravvisa, nelle pennellate, la dichiarata influenza di uno Yan Pei-Ming, ma che è caratterizzato da un aspetto che rende Tommaso Ottieri una figura probabilmente unica a livello internazionale. Ovvero, la maestria con cui utilizza l'antica arte dell'encausto. Si tratta di una tecnica estremamente complessa, in cui i pigmenti vengono lavorati con una ricetta a base di cera d'api. Che necessita però di notevoli sacrifici per essere applicata: il colore deve costantemente essere scaldato e deve essere steso in posizione orizzontale, e quindi il pittore – tra pennelli in una mano e asciugacapelli nell'altra, fornelletti e bagnomaria, impalcature e posizioni che definire scomode è dir poco – fatica parecchio per realizzare la propria opera.
Il vantaggio, però, è notevole. I quadri dipinti ad encausto hanno una durata virtualmente illimitata: i pigmenti infatti, protetti da questa particolare formula, non risentono dell'effetto del tempo e degli agenti atmosferici. E risultano, anche dopo migliaia di anni, uguali a come erano stati posati dal pittore. Ottieri merita sicuramente un posto tra i grandi della pittura italiana contemporanea. E qualora la sua arte dovesse giungere ad eternarlo, l'utilizzo dell'encausto garantirà – anche da un punto di vista puramente materico – l'eternità alla sua opera.

Matteo Procaccioli, metafisica dell'abbandono
29 Gen

Matteo Procaccioli, metafisica dell'abbandono

La fotografia di Matteo Procaccioli nasce come conseguenza a una duplice esigenza: da un lato, il bisogno di esorcizzare la paura dell'abbandono; dall'altro, l'intenzione di cogliere nei segni delle architetture e delle città il "tra", la traccia del passaggio tra tradizione e contemporaneità. Là, dove la vita quotidiana scorre spesso inconsapevole della storia e delle culture che l'hanno preceduta.

A questo inevitabile risultato Procaccioli è arrivato dopo aver sperimentato diversi percorsi. Lui, che lavora nel fashion marketing, in parte per quelli che ritiene essere i limiti posti dall'obiettivo (nel senso di fine ultimo) degli scatti della fotografia di moda ed in parte come reazione naturale alla chiassosità ed alla connaturata mutevolezza del suo ambiente di lavoro, cerca conforto – ma soprattutto risposte – ritraendo paesaggi vuoti, e riempiti solamente da strutture architettoniche. Che sono altrettanto vuote, o per meglio dire prive di ogni riferimento a figure umane o alla loro presenza, ma che nel loro monumentale silenzio rendono tale presenza forte ed implicita.

Procaccioli ha iniziato fotografando strutture abbandonate. Relitti di un mondo passato, che è stato vissuto, ma di cui non coglie il quasi ovvio aspetto malinconico: ai suoi occhi, questi soggetti garantiscono la possibilità di raccontarsi ipotesi, di ricostruire episodi o anche epopee, senza che però nulla di palese possa richiamare ad una trama specifica o a una storia umana: ogni risposta è lasciata alla suggestione evocata dallo scatto e dalla sua elaborazione. Un'elaborazione che viene operata coniugando tecniche tradizionali e innovative, dapprima “dipingendo” digitalmente lo scatto, ed in seguito – in fase di stampa – lavorando sulla matericità della fotografia. Il risultato, se dapprima può apparire di gusto retrò, tende invece piuttosto a dare alle opere un aspetto atemporale, quasi metafisico, contribuendo di fatto a svincolare ulteriormente i soggetti da canoni “umani” di osservazione, quali quelli che debbono necessariamente sottostare ai vincoli dello spazio e del tempo. E lo stesso effetto si ravviserà in seguito, quando il fotografo dedicherà la sua attenzione a skyline, edifici, paesaggi urbani tuttora funzionali e vivi, ma svuotati – nei suoi scatti – di ogni riferimento palese alla vita ed ai suoi limiti, per cogliere sempre e solo l'essenza della struttura, per percepire l'assenza che era implicita negli edifici relitti.

Da questo suo approccio iniziale, in cui vi era una ricerca di verticalità con un punto di ripresa dal basso, Procaccioli perviene – nel suo ultimo progetto, Microcities – ad un cambio di visuale necessario per una riconsiderazione del rapporto tra le strutture e lo spazio: intere città vengono ora riprese dall'alto, a volo di uccello. Ponendo in evidenza la loro collocazione nel contesto delle forme naturali circostanti, e rendendole in questo modo apparentemente piccole, quasi un contraltare alla maestosità della visuale dal basso. Per ricordare che l'assenza della “natura” nelle foto di Procaccioli ne implica comunque la presenza, e ne sottointende la grandiosità.

Chandra Fanti, l'eterna ricerca della verità
17 Feb

Chandra Fanti, l'eterna ricerca della verità

Chandra Fanti, ternana di nascita e berlinese di rinascita, inizia lavorando sul legno. Sul quale in effetti non dipinge, ma opera delle incisioni, nel tentativo di oltrepassare l'involucro esterno, alla ricerca della profondità. Nella prima fase del suo percorso artistico usa sostanzialmente il supporto pittorico come una seconda pelle, e la pittura/incisione come una sorta di atto autolesivo tramite il quale poter recuperare il contatto con la realtà e la distinzione tra interno ed esterno.

Già da allora la sua opera è volta alla ricerca della conoscenza del sé, com'è tuttora: ma in seguito, e fino ad oggi, a quella iniziale fase di scarificazione ha man mano sostituito un approfondimento ulteriore. Per la piena conoscenza di sé stessi, infatti, occorre andare oltre al derma, e oltre ancora. Oltre la carne, nel profondo. Per arrivare, finalmente, al reale obiettivo dell'artista: la verità oltre il sé, l'annullamento dell'esperienza personale.

I quadri di Chandra Fanti raffigurano delle stanze mentali. Apparentemente oniriche, di certo fortemente simboliche, prendono spunto dalle sue esperienze: in esse, l'artista cerca di ricostruire sensazioni basate in parte sui suoi ricordi, ma svolti in chiave non autobiografica: nella sua ricerca di risposte, di verità, fa appello alle proprie rimembranze, ma lo fa rapportandole ad un inconscio collettivo. Utilizza i ricordi come strumento di analisi, certa che - nonostante si tenda a cercare la verità al di fuori di noi stessi- lo strumento migliore, che tutti abbiamo a portata di mano, sia di fatto la nostra essenza; compiendo un percorso che, dalle sensazioni e dalle esperienze, passi oltre, attraverso l'inconscio e fino all'ancestrale. Un dialogo interiore – svolto in spazi non fisici, ma mentali - che la accomuna, come lei stessa sottolinea, con la Louise Bourgeois di Cells.

In questo suo lavoro sulla memoria, che ricorda in parte quello compiuto da Saudek in fotografia, sono centrali i riferimenti ai fiumi dell'Ade; inteso non come “inferno” nel senso punitivo, ma come luogo profondo e metafisico da cui parte la rigenerazione stessa. Questi elementi emergono tutti in particolare nella serie delle stanze del Lete:  il Lete è fiume dell'oblio, ove si immergevano gli umani per dimenticare ogni esperienza di vita, per poi rinascere. Al contrario, l'assenza dell'oblio è la verità: in greco, “lete” sta per oblio, e “aletheia”, ovvero verità, significa proprio assenza di oblio. L'artista annulla lo spazio ed il tempo nelle sue stanze, e anche l'esperienza personale perde i suoi limiti e diventa collettiva, per confrontarsi con l'oblio personale, alla ricerca della verità; e nel farlo, eliminando ogni coordinata, annulla i limiti della propria esperienza, per trovare una verità universale.

Elemento ricorrente nei quadri della Fanti è il cavallo: come spiega la pittrice, esso rappresenta per lei quello che la mitologia mesoamericana definisce un nahual, ovvero uno spirito guardiano ed un alleato, che aiuta a capirsi. E che l'artista utilizza come il cavallo di Troia di Ulisse, per riuscire meglio nell'impresa di oltrepassare le proprie barriere e penetrare nel proprio profondo. Dice lei stessa: “Il cavallo è ipersensibile, ha canali aperti che lo aiutano a capire le sensazioni di chi gli è vicino. È come se non avesse pelle, avverte l'animo delle persone e i cambiamenti nell'aria. Come l'artista.