In occasione della Art Week milanese e del Salone Internazionale del Mobile, la Rinascente presenta “I am tired of eating fish”, un progetto site specific di Paola Pivi, a cura di Cloe Piccoli, appositamente ideato e prodotto per le vetrine dello store di Milano. Le opere saranno esposte fino al 9 aprile.
L’artista ridisegna le otto vetrine affacciate su piazza Duomo invitando a entrare nel suo universo, un mondo surreale, governato dalle leggi dell’assurdo, un sogno ad occhi aperti, dove tutto è possibile.
Il progetto nasce all’interno di una cornice e una strategia proprie del marchio. Dal 1920 il department store milanese presta una grande attenzione alla cultura, richiamando negli anni ’50 art director come Bruno Munari, dando vita nel 1954 al famoso concorso Compasso d’Oro, insieme a Giò Ponti, o ancora producendo negli stessi anni allestimenti per la Triennale. Di recente è nato il progetto per le vetrine, affidate ad artisti come Olafur Eliasson, Martino Gamper e nel 2016 John Armleder, sempre sotto la curatela di Cloe Piccoli.
In occasione della Art Week milanese e del Salone Internazionale del Mobile, la Rinascente presenta “I am tired of eating fish”, un progetto site specific di Paola Pivi, a cura di Cloe Piccoli, appositamente ideato e prodotto per le vetrine dello store di Milano. Le opere saranno esposte fino al 9 aprile.
L’artista ridisegna le otto vetrine affacciate su piazza Duomo invitando a entrare nel suo universo, un mondo surreale, governato dalle leggi dell’assurdo, un sogno ad occhi aperti, dove tutto è possibile.
Il progetto nasce all’interno di una cornice e una strategia proprie del marchio. Dal 1920 il department store milanese presta una grande attenzione alla cultura, richiamando negli anni ’50 art director come Bruno Munari, dando vita nel 1954 al famoso concorso Compasso d’Oro, insieme a Giò Ponti, o ancora producendo negli stessi anni allestimenti per la Triennale. Di recente è nato il progetto per le vetrine, affidate ad artisti come Olafur Eliasson, Martino Gamper e nel 2016 John Armleder, sempre sotto la curatela di Cloe Piccoli.
In occasione della Art Week milanese e del Salone Internazionale del Mobile, la Rinascente presenta “I am tired of eating fish”, un progetto site specific di Paola Pivi, a cura di Cloe Piccoli, appositamente ideato e prodotto per le vetrine dello store di Milano. Le opere saranno esposte fino al 9 aprile.
L’artista ridisegna le otto vetrine affacciate su piazza Duomo invitando a entrare nel suo universo, un mondo surreale, governato dalle leggi dell’assurdo, un sogno ad occhi aperti, dove tutto è possibile.
Il progetto nasce all’interno di una cornice e una strategia proprie del marchio. Dal 1920 il department store milanese presta una grande attenzione alla cultura, richiamando negli anni ’50 art director come Bruno Munari, dando vita nel 1954 al famoso concorso Compasso d’Oro, insieme a Giò Ponti, o ancora producendo negli stessi anni allestimenti per la Triennale. Di recente è nato il progetto per le vetrine, affidate ad artisti come Olafur Eliasson, Martino Gamper e nel 2016 John Armleder, sempre sotto la curatela di Cloe Piccoli.
In occasione della Art Week milanese e del Salone Internazionale del Mobile, la Rinascente presenta “I am tired of eating fish”, un progetto site specific di Paola Pivi, a cura di Cloe Piccoli, appositamente ideato e prodotto per le vetrine dello store di Milano. Le opere saranno esposte fino al 9 aprile.
L’artista ridisegna le otto vetrine affacciate su piazza Duomo invitando a entrare nel suo universo, un mondo surreale, governato dalle leggi dell’assurdo, un sogno ad occhi aperti, dove tutto è possibile.
Il progetto nasce all’interno di una cornice e una strategia proprie del marchio. Dal 1920 il department store milanese presta una grande attenzione alla cultura, richiamando negli anni ’50 art director come Bruno Munari, dando vita nel 1954 al famoso concorso Compasso d’Oro, insieme a Giò Ponti, o ancora producendo negli stessi anni allestimenti per la Triennale. Di recente è nato il progetto per le vetrine, affidate ad artisti come Olafur Eliasson, Martino Gamper e nel 2016 John Armleder, sempre sotto la curatela di Cloe Piccoli.
M77 Gallery è lieta di presentare la mostra Cyan Light And Abstract, personale del duo artistico americano McDermott & McGough. L’esposizione è stata appositamente realizzata per gli spazi della galleria ed è la terza personale dei due artisti in Italia: dopo l’esposizione del 1986 presso la galleria di Lucio Amelio a Napoli e quella del 1996 alla galleria Gian Ferrari, Cyan Light And Abstract riporta per la seconda volta a Milano l’immaginario onirico di David McDermott (Hollywood, California, 1952) e Peter McGough (Syracuse, New York, 1958).
Attraverso opere di fotografia e pittura, la mostra presenta un’ampia panoramica dei lavori dei due artisti, conosciuti al grande pubblico internazionale per la loro ricerca artistica che, pur attraversando diversi mezzi espressivi, dalla fotografia alla pittura, alla scultura, variando tecniche e supporti, si contraddistingue per la costante appropriazione di elementi – immagini e oggetti - del passato, soprattutto appartenenti alla fine del XIX secolo. Eleganti, sofisticati, eruditi, dal sapore volutamente “dandy” ma senza mai nulla sottrarre alla dimensione di profondità del loro lavoro, McDermott & McGough si incontrano a New York nel 1980. Da allora insieme conducono, nella loro arte così come nella loro stessa vita, una serie di “esperimenti” sul tempo, come si evince dalla retrodatazione delle loro opere in coerenza con la scena rappresentata, riportando alla luce uno stile perduto e affermando la volontà di non far parte del tempo corrente e a venire, cui non riconoscono alcuna bellezza.
M77 Gallery è lieta di presentare la mostra Cyan Light And Abstract, personale del duo artistico americano McDermott & McGough. L’esposizione è stata appositamente realizzata per gli spazi della galleria ed è la terza personale dei due artisti in Italia: dopo l’esposizione del 1986 presso la galleria di Lucio Amelio a Napoli e quella del 1996 alla galleria Gian Ferrari, Cyan Light And Abstract riporta per la seconda volta a Milano l’immaginario onirico di David McDermott (Hollywood, California, 1952) e Peter McGough (Syracuse, New York, 1958).
Attraverso opere di fotografia e pittura, la mostra presenta un’ampia panoramica dei lavori dei due artisti, conosciuti al grande pubblico internazionale per la loro ricerca artistica che, pur attraversando diversi mezzi espressivi, dalla fotografia alla pittura, alla scultura, variando tecniche e supporti, si contraddistingue per la costante appropriazione di elementi – immagini e oggetti - del passato, soprattutto appartenenti alla fine del XIX secolo. Eleganti, sofisticati, eruditi, dal sapore volutamente “dandy” ma senza mai nulla sottrarre alla dimensione di profondità del loro lavoro, McDermott & McGough si incontrano a New York nel 1980. Da allora insieme conducono, nella loro arte così come nella loro stessa vita, una serie di “esperimenti” sul tempo, come si evince dalla retrodatazione delle loro opere in coerenza con la scena rappresentata, riportando alla luce uno stile perduto e affermando la volontà di non far parte del tempo corrente e a venire, cui non riconoscono alcuna bellezza.
M77 Gallery è lieta di presentare la mostra Cyan Light And Abstract, personale del duo artistico americano McDermott & McGough. L’esposizione è stata appositamente realizzata per gli spazi della galleria ed è la terza personale dei due artisti in Italia: dopo l’esposizione del 1986 presso la galleria di Lucio Amelio a Napoli e quella del 1996 alla galleria Gian Ferrari, Cyan Light And Abstract riporta per la seconda volta a Milano l’immaginario onirico di David McDermott (Hollywood, California, 1952) e Peter McGough (Syracuse, New York, 1958).
Attraverso opere di fotografia e pittura, la mostra presenta un’ampia panoramica dei lavori dei due artisti, conosciuti al grande pubblico internazionale per la loro ricerca artistica che, pur attraversando diversi mezzi espressivi, dalla fotografia alla pittura, alla scultura, variando tecniche e supporti, si contraddistingue per la costante appropriazione di elementi – immagini e oggetti - del passato, soprattutto appartenenti alla fine del XIX secolo. Eleganti, sofisticati, eruditi, dal sapore volutamente “dandy” ma senza mai nulla sottrarre alla dimensione di profondità del loro lavoro, McDermott & McGough si incontrano a New York nel 1980. Da allora insieme conducono, nella loro arte così come nella loro stessa vita, una serie di “esperimenti” sul tempo, come si evince dalla retrodatazione delle loro opere in coerenza con la scena rappresentata, riportando alla luce uno stile perduto e affermando la volontà di non far parte del tempo corrente e a venire, cui non riconoscono alcuna bellezza.
Per la sua installazione “The Key In The Hand“, nel Padiglione del Giappone della Biennale di Venezia 2015, Chiharu Shiota si è avvalso della collaborazione di migliaia di persone via Internet. Alla richiesta di donare le proprie chiavi per realizzare questo lavoro la risposta della Rete è stata eccezionale: ne sono pervenute all’artista ben 180000.
«Spero che ciascuno tragga ispirazione dall’opera, che contiene l’accumulo dei ricordi di tutto il mondo, per ripensare il senso dell’essere in vita», dice Shiota, che aggiunge «Ogni chiave evoca ricordi intimi, è un oggetto familiare che protegge persone e spazi importanti nelle nostre vite».
Chiharu Shiota, The key in the hand
La più grande consolazione dell'essere italiani è quella di poter ricorrere alla nostra memoria. Il presente non è dei migliori, e tutto sommato nemmeno il passato prossimo; solitamente serve ricorrere al passato remoto, quando non ai trapassati, per ricordarci dell'orgoglio dell'essere italiani, almeno dal punto di vista culturale ed artistico.
In questo senso, “Codice Italia”, la mostra curata da Vincenzo Trione allestita presso il Padiglione Italia della Biennale di Venezia 2015, è un esempio ben riuscito di quella che la funzione di questa Memoria dovrebbe essere. Ovvero, l'essere la solida base da cui far partire lo slancio verso il futuro.
“In questo vivere nel tempo siamo come l'atleta, che per fare un balzo avanti deve sempre fare un passo indietro, se non fa un passo indietro non riesce a balzare in avanti”: in questa frase - dal sapore vagamente maoista, in questo senso allineata con le tinte rosse che caratterizzano la Biennale di quest'anno - che campeggia sui muri del Padiglione Italia è espresso proprio questo concetto. Ed il lavoro compiuto da Trione e dagli artisti presenti, ognuno con un'opera site specific, opera in maniera efficace in questa direzione.
La mostra si articola in tre capitoli: l'operazione compiuta da artisti italiani di varie formazioni ma accomunati dalla tensione verso la sperimentazione combinata con il ricorso alla memoria storico-artistica del nostro Paese, che sono stati invitati a realizzare opere simboliche e poetiche accompagnate da Archivi della Memoria ispirati all'Atlante di Warburg; l'omaggio di tre artisti stranieri alla nostra Arte; una videoinstallazione che ospita una riflessione di Umberto Eco relativa alla “reinvenzione della memoria”, tema centrale di “Codice Italia”.
Abbiamo rivolto tre domande a Vincenzo Trione curatore del Padiglione Italia.
Come si colloca il tema della Memoria da voi scelto per il Padiglione nell'ambito dell'indirizzo tracciato da Okwui Enwezor per la Biennale?
Con una forma di dialogo, ma anche di indipendenza: Enwezor ha scelto un percorso in gran parte legato al senso della frammentazione della profezia, muovendo da un riferimento a Benjamin. Nel mio caso, cerco di fare un lavoro sul tema della riattivazione della memoria. Una memoria intesa quindi non in senso anacronistico e nostalgico, ma come fondamento per dialogare continuamente con il presente e prefigurare scenari possibili. Quello che mi ha guidato è la scelta di artisti che pensano l'immagine e l'opera come spazi all'interno dei quali i riferimenti alla storia dell'arte sono in costante dialogo con il bisogno di innovare e di sperimentare sui linguaggi.
Il ricorso alla Memoria, per come paiono intenderlo gli artisti presenti al Padiglione Italia, sembra quasi più di stampo dissacratorio che non qualcosa che assomigli a un omaggio. È questo l'atteggiamento necessario per ripartire dai classici nella contemporaneità?
Si. L'unico modo per misurarsi con i classici, con i padri dell'arte sta probabilmente nell'avviare un dialogo aperto ma sempre inquieto e mai omaggiante, sfidando i riferimenti alla storia dell'arte e alla classicità con un gusto profondo per la profanazione. Il bisogno che accomuna tutti gli artisti è questo: non di innalzare la storia dell'arte su un piedistallo, ma di acquisirla e collocarla dentro altri circuiti di senso, dentro altri spazi. E, soprattutto, con l'atteggiamento di chi della storia dell'arte fa ciò che vuole, prendendosi quindi il gusto di dissacrarla.
Come ritiene l'approccio degli artisti presenti al Padiglione Italia verso i nuovi media come parte del mezzo espressivo?
In molti autori il rapporto con i media è fortissimo. Si parte dall'utilizzo del supporto fotografico nel caso di Antonio Biasiucci e di Paolo Gioli; Di Gioli, inoltre, presento anche due film che sono un omaggio alla storia delle avanguardie del primo novecento. La matrice fotografica è anche all'origine, per esempio, del lavoro di Giuseppe Caccavale. La videoinstallazione è un tema che si ritrova in Aldo Tambellini e in Andrea Aquilanti. È presente in mostra un film in tre parti come quello di Davide Ferrario su Umberto Eco. Il lavoro di Peter Greenaway è un omaggio alla storia dell'arte, ma risituata attraverso una videoinstallazione che è a metà strada tra il videoclip e l'opera d'arte totale. E Kentridge pensa i suoi disegni come degli sketch per un possibile film.
Ritengo quindi che l'approccio sia molto attivo. Peraltro, quello del rapporto con i nuovi media è un tema che mi sta molto a cuore: insegno arte e nuovi media, è la mia disciplina.
In occasione di miart 2016, la Fondazione Nicola Trussardi e miart presentano Sarah Lucas – INNAMEMORABILIAMUMBUM, un progetto speciale d’arte contemporanea della celebre artista inglese.
All’interno dell’Albergo Diurno Venezia, tempio dedicato alla bellezza e alla cura del sé, Sarah Lucas realizza un intervento espositivo site-specific: sculture, installazioni, interventi sonori e performativi danno vita a una tre giorni di eventi espositivi, performance e happening live che hanno come tema principale il corpo, la sua rappresentazione, le sue storie e gli stereotipi di cui ancora si nutre la nostra società.
Irriverenti e disarmanti nella loro estrema semplicità, le opere di Sarah Lucas – fotografie, collage, sculture e disegni – danno vita a un teatro dell’ambiguità in cui materiali apparentemente banali si trasformano in oggetti d’affezione che rivelano desideri e pulsioni represse.