Davide Gasparotto (Getty Museum): “Voglio qui un dipinto italiano del 300″
Sono ormai passati tre anni dalla nomina di Davide Gasparotto al prestigioso ruolo di Senior Curator of Paintings della più ricca istituzione museale al mondo: il Getty Center.
Una nomina che colpisce, dopo il clamore suscitato non solo due anni fa con gli incarichi affidati ai sette direttori stranieri dei musei pubblici italiani, ma ancor più dopo il “palleggiamento” delle sentenze tra il Tar del Lazio e il Consiglio di Stato, che hanno recentemente dapprima sospeso e poi riammesso i direttori in questione a capo delle rispettive istituzioni.
Verrebbe da pensare all’ennesimo episodio di fuga di cervelli; ma, per dirla con il direttore del Getty, Timothy Potts, non sono le nazionalità degli accademici ad essere importanti, quanto la loro esperienza: e se, come lui sostiene, i direttori stranieri in Italia non possono che far bene al nostro Paese per il fatto di portare differenti punti di vista, più internazionali, nel modo di gestire realtà complesse come i musei, allo stesso modo è l’esperienza – più che l'”italianità” – di Gasparotto ad averlo reso la figura giusta per il ruolo che ricopre.
Abbiamo incontrato Davide Gasparotto e, seduti nel meraviglioso Central Garden del Getty Center, gli abbiamo posto alcune domande.
Se da un lato lasciare l’Italia per lavorare in una realtà come questa può essere affascinante grazie ai mezzi economici di cui dispone, dall’altra come ci si pone nel ritrovarsi in un museo che seppur opera d’arte esso stesso si trova in un contesto storico e ambientale completamente diverso dall’arte di cui tratta?
Diciamo che forse l’aspetto che mi manca di più dell’Italia è proprio il continuum, cioè il fatto che lì il museo trova una naturale prosecuzione fuori da sé: nell’ambiente naturale, nelle città, nei palazzi, nelle chiese e nelle strade. C’è un’osmosi molto forte, nel nostro Paese, tra il museo e il contesto. Questo ovviamente è un aspetto che qui è totalmente assente: il museo qui è una monade, una cosa isolata, una specie di cattedrale nel deserto, dal punto di vista di chi studia l’arte antica come studio io. E questo davvero è l’aspetto che mi manca di più dell’Italia. Detto questo, però, mentre in Italia uno storico dell’arte è sempre al lavoro anche quando esce dal museo, perché il contesto lo stimola continuamente, qui è invece possibile creare un distacco tra l’attività lavorativa e il proprio tempo libero. Mentalmente è una cosa abbastanza rinfrescante, perché riesco ad essere molto concentrato quando sono qui nel museo e a staccare completamente quando sono fuori. E, per esempio, per uno che ami la natura come me, qui è davvero bello potersi godere il tempo libero: ci sono paesaggi e ambienti totalmente diversi dai nostri e molto affascinanti.
Quindi cosa fa Davide Gasparotto in questo tempo libero?
Nonostante sia nato e cresciuto in Italia, non ho mai vissuto in un posto vicino al mare, cosa che invece faccio qui. Questo dà una grande energia e una prospettiva diversa alla vita quotidiana; quindi vado al mare, vado in spiaggia e faccio un po’ di bodysurf, cammino molto e vado in montagna. Quando ho tempo cerco di visitare i meravigliosi parchi nazionali che sono una delle grandi ricchezze naturalistiche di questo paese.
E negli altri musei ci va?
Naturalmente sì. A Los Angeles c’è una grande ricchezza anche di musei, come il Los Angeles Country Museum of art; ci sono i musei a Pasadena, come il Norton Simon che ha una collezione meravigliosa di pittura antica e dell’800; c’è la Huntington Library a San Marino che è un bellissimo museo e poi c’è l’Hammer Museum qui a Westwood dove ho appena visto una mostra bellissima dedicata alla grande artista italiana contemporanea Marisa Merz. Inoltre, ovviamente, qui c’è una grande vivacità nell’arte contemporanea in una scena molto ricca anche di gallerie private. Poi ci sono il MOCA e anche il Broad, che è un museo nuovo basato sulla importante collezione di Eli Broad, collocato in un bellissimo edificio disegnato da Diller e Scofidio, due importanti architetti di New York: anche la scena dell’architettura contemporanea qui è molto importante.
Cosa vuole portare Davide Gasparotto al Getty? Si è posto degli obiettivi a breve, a medio e a lungo termine?
Uno dei miei compiti fondamentali qui è quello delle acquisizioni, che qui sono molto importanti: la collezione è una collezione relativamente piccola, abbiamo poco più di 400 dipinti e uno dei primi obiettivi è quello di ampliarla. Io ho già portato due nuovi quadri italiani: la Danaë di Gentileschi e la Madonna del Parmigianino. Spero negli anni futuri di poter acquisire altri dipinti italiani e mi piacerebbe molto – perché è parecchio tempo che non si comprano – acquisire un dipinto italiano di alta epoca, quindi del Trecento o del primo Quattrocento.
Cosa porterebbe in Italia del Getty?
Forse l’Alabardiere di Pontormo sarebbe un quadro che mi piacerebbe vedere in Italia, però nel nostro paese abbiamo già così tanto che non penso ci sia veramente bisogno di quello che c’è qui. Invece qua c’è molto bisogno di queste cose, perché sono veramente molto apprezzate, sono al centro dell’attenzione e rappresentano davvero qualcosa di molto importante per far capire l’evoluzione dell’arte occidentale dal Medioevo all’Ottocento. La funzione educativa è per noi fondamentale: abbiamo un dipartimento education estremamente attivo, facciamo delle mostre in cui cerchiamo di portare ulteriori opere da noi. A ottobre inaugurerà la prima vera importante mostra che io ho organizzato qui al Getty, interamente dedicata a Giovanni Bellini, uno dei grandi pittori veneziani del Rinascimento; nella nostra collezione permanente non abbiamo alcun dipinto di Bellini, per cui anche questa sarà una splendida occasione per far vedere al nostro pubblico un grandissimo pittore italiano che non è molto conosciuto.
E cosa porterebbe, del Getty, in un suo eventuale ritorno in Italia, per gestire un suo ipotetico museo ideale?
È molto difficile fare dei confronti tra l’Italia e gli Stati Uniti, perché qui – in particolare al Getty, ma anche in molti altri musei americani – ci sono molte risorse finanziarie, che chiaramente rendono la vita del curatore più facile di quanto non lo sia in Italia. Però ci sono sicuramente degli aspetti che si possono non dico importare, ma imparare, o prendere a modello: la cosa più importante per noi è il pubblico, quindi il nostro lavoro è fortemente orientato verso il servizio nei confronti del pubblico. L’accoglienza è molto importante, creando per il pubblico un ambiente che non sia respingente, che non sia troppo elitista, per fare sentire la gente al museo a casa propria. Questo è un aspetto che qui si cura molto e credo che forse ancora un po’ da noi manchi.
Io però sento che c’è invece questa direzione anche da parte dei musei italiani, si stanno muovendo per essere accoglienti in questo senso nei confronti del pubblico, forse voi siete solo un po’ più avanti…
Sicuramente anche in Italia si stanno facendo grandi passi, si sta migliorando la comunicazione web, si sta facendo anche più uso di social media per promuovere il museo come qui. Però forse manca ancora il focus sull’esperienza diretta nel museo, e – come dicevo prima sull’accoglienza. Per noi l’esperienza del visitatore è fondamentale.
Ma lei tornerebbe in Italia adesso? Magari in un ipotetico museo ideale.
Non lo so, forse è troppo presto. Credo che per dare qualcosa a un’istituzione si debba lavorarci per almeno cinque, dieci anni. Magari quindi un domani. Certo, se dovessi farlo, penserei a un ritorno nella mia regione di provenienza, ovvero nel Veneto; magari proprio a Venezia, una città che è molto nel mio cuore e per cui nutro una certa preoccupazione riguardo la sua conservazione futura.
La sua nomina qui al Getty contribuisce e contribuirà anche a un maggiore approfondimento di mostre legate all’arte italiana, a collaborazioni con musei del nostro paese?
Le collaborazioni c’erano già quando io sono arrivato, forse si sono intensificate, e lo faranno ancora: nella mia testa ci sono molti progetti futuri legati all’Italia e in particolare al Rinascimento italiano che è il mio campo di elezione. Penso sicuramente a collaborazioni con le istituzioni italiane, anche adesso con la mostra su Bellini possiamo contare su importanti prestiti dal Museo Correr di Venezia, dalla Galleria dell’Accademia di Venezia, dagli Uffizi di Firenze, come dalla collezione Corsini di Firenze. I rapporti, comunque, già ci sono e sono già intensi e importanti.