In mostra a Milano a Palazzo Reale fino al 6 maggio 2018 c'è "Italiana. L’Italia vista dalla moda 1971-2001". Un progetto in forma di mostra e libro, ideato e curato da Maria Luisa Frisa e Stefano Tonchi, che intende celebrare, e raccontare, la moda italiana in un periodo seminale, evidenziando la progressiva messa a fuoco e l’affermazione del sistema italiano della moda nella grandiosa stagione del Made in Italy. Un periodo formidabile di creatività culturale che cementa relazioni e scambi tra gli esponenti di quelle generazioni italiane di artisti, architetti, designer e intellettuali che hanno impostato le rotte della presenza italiana nella cultura internazionale.
La mostra intende anche celebrare l’importante anniversario dei sessant’anni di Camera Nazionale della Moda Italiana.
La narrazione di Italiana procede per concetti e visioni in un sofisticato paesaggio progettuale. Un immaginifico e rigoroso caleidoscopio creativo, in cui dialogano gli oggetti, gli stili e le atmosfere che definiscono la cultura italiana e gli attori, protagonisti e comprimari, che compongono l’affresco corale della moda italiana.
I ricavi della mostra saranno devoluti a CNMI Fashion Trust.
ITALIANA. Vanessa Beecroft VB 16, Deitch Projects, NY 1996
La più grande consolazione dell'essere italiani è quella di poter ricorrere alla nostra memoria. Il presente non è dei migliori, e tutto sommato nemmeno il passato prossimo; solitamente serve ricorrere al passato remoto, quando non ai trapassati, per ricordarci dell'orgoglio dell'essere italiani, almeno dal punto di vista culturale ed artistico.
In questo senso, “Codice Italia”, la mostra curata da Vincenzo Trione allestita presso il Padiglione Italia della Biennale di Venezia 2015, è un esempio ben riuscito di quella che la funzione di questa Memoria dovrebbe essere. Ovvero, l'essere la solida base da cui far partire lo slancio verso il futuro.
“In questo vivere nel tempo siamo come l'atleta, che per fare un balzo avanti deve sempre fare un passo indietro, se non fa un passo indietro non riesce a balzare in avanti”: in questa frase - dal sapore vagamente maoista, in questo senso allineata con le tinte rosse che caratterizzano la Biennale di quest'anno - che campeggia sui muri del Padiglione Italia è espresso proprio questo concetto. Ed il lavoro compiuto da Trione e dagli artisti presenti, ognuno con un'opera site specific, opera in maniera efficace in questa direzione.
La mostra si articola in tre capitoli: l'operazione compiuta da artisti italiani di varie formazioni ma accomunati dalla tensione verso la sperimentazione combinata con il ricorso alla memoria storico-artistica del nostro Paese, che sono stati invitati a realizzare opere simboliche e poetiche accompagnate da Archivi della Memoria ispirati all'Atlante di Warburg; l'omaggio di tre artisti stranieri alla nostra Arte; una videoinstallazione che ospita una riflessione di Umberto Eco relativa alla “reinvenzione della memoria”, tema centrale di “Codice Italia”.
Abbiamo rivolto tre domande a Vincenzo Trione curatore del Padiglione Italia.
Come si colloca il tema della Memoria da voi scelto per il Padiglione nell'ambito dell'indirizzo tracciato da Okwui Enwezor per la Biennale?
Con una forma di dialogo, ma anche di indipendenza: Enwezor ha scelto un percorso in gran parte legato al senso della frammentazione della profezia, muovendo da un riferimento a Benjamin. Nel mio caso, cerco di fare un lavoro sul tema della riattivazione della memoria. Una memoria intesa quindi non in senso anacronistico e nostalgico, ma come fondamento per dialogare continuamente con il presente e prefigurare scenari possibili. Quello che mi ha guidato è la scelta di artisti che pensano l'immagine e l'opera come spazi all'interno dei quali i riferimenti alla storia dell'arte sono in costante dialogo con il bisogno di innovare e di sperimentare sui linguaggi.
Il ricorso alla Memoria, per come paiono intenderlo gli artisti presenti al Padiglione Italia, sembra quasi più di stampo dissacratorio che non qualcosa che assomigli a un omaggio. È questo l'atteggiamento necessario per ripartire dai classici nella contemporaneità?
Si. L'unico modo per misurarsi con i classici, con i padri dell'arte sta probabilmente nell'avviare un dialogo aperto ma sempre inquieto e mai omaggiante, sfidando i riferimenti alla storia dell'arte e alla classicità con un gusto profondo per la profanazione. Il bisogno che accomuna tutti gli artisti è questo: non di innalzare la storia dell'arte su un piedistallo, ma di acquisirla e collocarla dentro altri circuiti di senso, dentro altri spazi. E, soprattutto, con l'atteggiamento di chi della storia dell'arte fa ciò che vuole, prendendosi quindi il gusto di dissacrarla.
Come ritiene l'approccio degli artisti presenti al Padiglione Italia verso i nuovi media come parte del mezzo espressivo?
In molti autori il rapporto con i media è fortissimo. Si parte dall'utilizzo del supporto fotografico nel caso di Antonio Biasiucci e di Paolo Gioli; Di Gioli, inoltre, presento anche due film che sono un omaggio alla storia delle avanguardie del primo novecento. La matrice fotografica è anche all'origine, per esempio, del lavoro di Giuseppe Caccavale. La videoinstallazione è un tema che si ritrova in Aldo Tambellini e in Andrea Aquilanti. È presente in mostra un film in tre parti come quello di Davide Ferrario su Umberto Eco. Il lavoro di Peter Greenaway è un omaggio alla storia dell'arte, ma risituata attraverso una videoinstallazione che è a metà strada tra il videoclip e l'opera d'arte totale. E Kentridge pensa i suoi disegni come degli sketch per un possibile film.
Ritengo quindi che l'approccio sia molto attivo. Peraltro, quello del rapporto con i nuovi media è un tema che mi sta molto a cuore: insegno arte e nuovi media, è la mia disciplina.
Al PAC di Milano, nel contesto della settimana della moda, Tod’s rende merito al Made in Italy e sottolinea la nobiltà del lavoro artigianale – che non a caso è etimologicamente legato al concetto di arte – tramite la performance VB Handmade di Vanessa Beecroft, prima dell’apertura della sfilata del brand principe del gruppo di Diego Della Valle.
L’intenzione è quella di sottolineare l’importanza di quel verbo, “Made“, restituendolo alle mani ed alla maestria dell’uomo. E, con l’opera della Beecroft, Della Valle intende anche lanciare un messaggio ai giovani, per avvicinarli a un lavoro importante – quello dell’artigiano – spesso sottovalutato.
Abbiamo rivolto alcune domande all’artista.
La moda ha da sempre guardato all’arte come fonte di ispirazione per trarre suggestioni da coniugare poi negli abiti. La reciprocità del rapporto, tranne in casi particolari come quello dei futuristi, non è mai stata particolarmente garantita, se non da eccezioni splendide, come è anche la sua. Quali sono i motivi forti per cui la moda può diventare elemento chiave per un’opera d’arte?
Si tratta del concetto che sta dietro alla scelta di un designer. Un esempio potrebbe essere Yves Saint Laurent che, nel creare un’immagine di donna diversa, le attribuisce dei nuovi valori. Non si tratta di una considerazione estetica, ma di qualcosa che comporta cambiamenti stilistici che sono simili a quelli che fa l’arte nell’arte. Quando le due operano in modo simile, che è quello secondo me di partire da un concetto che rivoluziona la società, allora l’arte e la moda si avvicinano. Ed è quello che ho fatto io stessa in questo lavoro: non ho pensato a un’estetica, prima ho pensato alla pelle, alla seconda pelle di una donna, all’operato di avvolgerla, di trafiggerla con degli aghi, e dal concetto è nata poi la forma. Quando la moda è a sua volta così radicale si può avvicinare all’arte.
La storia dei tableau vivant si rinnova costantemente, sin dal diciannovesimo secolo, ed è sempre attuale, andando di pari passo con l’evoluzione delle arti, della pittura, della fotografia e del teatro. Quali sono i suoi riferimenti più importanti?
La verità è che i miei riferimenti sono le pitture del rinascimento: non ho avuto immediati riferimenti di performers perchè sono sempre troppo… performativi. I miei riferimenti sono sempre state le immagini fisse, non potendo riprodurle con la pittura le ho realizzate con gli esseri umani.
L’aspetto effimero delle performance sembra essere più coerente, rispetto ad altri media da lei usati (scultura, fotografia, video…) nel coniugarsi ad un mondo che si tende a definire altrettanto effimero com’è quello della moda.
Ma l’arte per definizione non dovrebbe eternare?
Lo so, è una questione che mi sono posta. Il problema è nato dal fatto di credere di non riuscire a riprodurre con la pittura o la scultura ciò che trovavo immanente in una donna, nella figura femminile. Quindi per un certo periodo ho utilizzato la fotografia, che però non mi appartiene, dato che non sono una fotografa: l’ho fatto per poter ovviare all’assenza della performance una volta che se ne è andata – a parte, chiaramente, la forza della memoria – cercando di compensare con fotografie, disegni, pittura, ed oggi sculture in marmo. Ora mi trovo in un momento in cui sto cercando di capire se io possa allontanarmi dalla performance e concentrarmi finalmente sulla pittura. Dopo aver passato vent’anni in cui mi sono occupata prevalentemente di mostrare gli aspetti sociali, potrei adesso dedicarmi invece solo all’arte, e quindi alla forma, alla bellezza, al colore, all’estetica. Questo sarebbe un lusso che non mi sono ancora permessa.
Cosa si è risposta?
Ancora non lo so. Addirittura due giorni fa mi sono detta “adesso chiudo lo studio” perché ho l’impressione di non aver mai avuto il tempo prolungato di chiudermi in uno studio; forse da qui scaturisce il conflitto che poi genera questo tipo di opere e non la pittura.
La collaborazione con Tod’s, come è nata?
La collaborazione è nata in un momento molto critico perchè non avevo molto tempo a disposizione e non sapevo se ce l’avrei fatta. Ma Diego Della Valle è una persona che conosco per la sua sensibilità all’arte, e mi sono detta che quindi avrebbe capito il lavoro di un’artista. Ho anche chiesto dei consigli, ad esempio a Franca Sozzani che mi ha detto “fallo, sarai capita, non avere paura”. Mi preoccupava non riuscire a fare una cosa abbastanza buona in poco tempo. Ma ho avuto il conforto di persone che conoscono la famiglia e che hanno garantito la protezione intellettuale: questo mi ha dato molto coraggio.