Dal 21 maggio al 18 settembre, alle Officine Saffi di Milano, Silvia Celeste Calcagno esporrà la propria personale Interno 8, La fleur coupée.
La mostra, curata da Angela Madesani, chiude un cerchio nella carriera - e forse anche nella vita - di Silvia, per aprirne uno nuovo. L' “interno 8” è effettivamente la casa “di transizione” dell'artista, in cui vive in seguito a un cambiamento importante. E il cerchio che si chiude attorno alla sua vita privata è stato coronato con l'assegnazione - la scorsa settimana - del prestigioso Premio Faenza, importantissimo concorso internazionale della ceramica d'arte contemporanea.
L'opera della Calcagno è notevole proprio per il fatto di riuscire a coniugare un'arte “antica” con il ricorso ai nuovi media, di farlo in maniera tutt'altro che forzata, e naturalmente di porre tutto ciò al servizio del proprio concetto con una forza importante. La ceramica, probabilmente per “colpa” dei ceramisti stessi, è un mezzo espressivo che in arte tende ad essere sottovalutato, per via del suo utilizzo abitualmente legato all'artigianato; inoltre, la fotoceramica è una tecnica generalmente associata a settori che tendono ad allontanarla ulteriormente dall'idea di “arte”. Silvia Calcagno innanzitutto lavora con il gres, di cui ha studiato (e insegnato) a fondo le caratteristiche e le potenzialità; ha inoltre sviluppato una tecnica particolare, da lei battezzata “fine painting gres” che permette alla fotografia di penetrare a fondo la materia, di divenire un tutt'uno con essa. Ma, ancora, non è la padronanza tecnica la parte centrale del suo lavoro, bensì quella concettuale. L'utilizzo del gres come mero supporto alla forza delle sue idee, assieme al ricorso alla fotografia e ai video, fanno della Calcagno un'artista che porta un decisivo contributo ad uno sdoganamento dell'uso della ceramica nell'arte nobile contemporanea.
I temi centrali dell'opera dell'artista sono quelli dell'identità e della reiterazione. Anzi, tramite la reiterazione c'è una costante ricerca della propria identità. Ecco perché Silvia ritrae sé stessa, innumerevoli e impercettibili variazioni del proprio corpo. E se prima la ricerca dell'identità era fatta di profilo, quasi di nascosto, ora, con “Rose” (una delle opere esposte alla mostra), l'artista guarda in faccia - attraverso oltre tremila scatti, eseguiti tutti in tre ore - l'osservatore; ponendosi quindi in confronto con lui, mostrando ora la propria malinconia, ora l'ironia, oppure il proprio senso di tristezza, di sconfitta.
Nel lavoro della Calcagno non traspare però alcuna autoreferenzialità. L'utilizzo che lei fa del proprio corpo come soggetto dell' opera è necessario e inevitabile ed in ogni caso, nonostante l'ossessiva ripetizione e moltiplicazione di sé, risulta discreto. Apparentemente moderato, eppure forte. È forse questo approccio a distaccarla decisamente dalla body art, mentre il ricorso al materiale audiovisivo sottolinea ulteriormente la multimedialità della sua espressione, che - lo ribadiamo - riesce a coniugare in maniera estremamente convincente i nuovi mezzi espressivi con quello che è uno dei media più antichi che l'arte conosca.